Ma rido o tremo?

E mi ritrovo a vivere e a pensare,
a vedere, a sentire, ad annusare,
ad attendere con impazienza
che l’impazienza mi abbandoni ancora
e ancora mi consegni alla mia noia.

Ma per adesso l’impazienza regna,
per adesso mi sento vivo e penso
a questa febbre che mi sta prendendo
- insana - ma profuma di speranza:
ebbro di speranza, ebbro d’impazienza.

L'innocenza e la bontà... (mie)

Ebbene, a Manzoni venticinque lettori sembravano pochi. Io, che cercavo una formula per cominciare questo post, ho pensato proprio ai famosi venticinque lettori. Onde poi accorgermi, però, che venticinque – VENTICINQUE – sono tantissimi! Basti pensare che questo blog, oltre al sottoscritto, che è anche lo scrivente, che sarei poi io, me medesimo, ha un solo – UNO – lettore. Costei è ignota e, per non rivelarne direttamente il nome, dirò solo che esso inizia per R, finisce per A, al centro comprende una I e una T e, infine, conta solo quattro lettere.

Ma la matematica è così amorevolmente natalizia, oggi, che mi consentirà uno strappo.

Miei cari venticinque lettori (=1), come sapete, essendo voi numerosi (=1) ed affezionati (=1), io non sono avvezzo, come altri, ad una narrazione diaristica della mia piatta vita – piatta come un piatto piatto con sopra affettati appiattiti gli uni sugli altri. Tuttavia. Tuttavia oggi è Natale, sono le 19.20 e sono appena tornato dal pranzo-merenda-cena coi parenti (non sto scherzando, ci si è cibati di cibo dalle 13 alle 19; ininterrottamente) e per una volta sento il bisogno di riversare ogni mia amarezza (e se potessi anche un po’ di roba che mi rotola felice da un capo all’altro della pancia, tra cui la sesta fetta di pandoro con crema di mascarpone che, effettivamente, è FORSE stata un po’ eccessiva…) su una pagina. Questa bisogno costituisce una necessità cogente in virtù di queste seguenti considerazioni:
1) Sto di merda.
2) È natale --> 3) Non posso fracassare i maroni alle mie amike (la rì tanto si becca la manfrina lo stesso, essendo l’unica lettrice del blog…)
4) Ho un bisogno disperato di sfogarmi.

Allora. Ore 13.00 si inizia a mangiare, presenti diciotto – DICIOTTO – persone… + due cani (i più umani dell’allegra brigata, meno male che c’erano loro). La tavolata, unica e lunga come la fame, era così suddivisa: sulla vostra sinistra, ladies and gentlemen, potete vedere le mummi… ehm, la geriatr… ehm, i ‘grandi’; sulla vostra destra, madames et messieurs, ecco la sezione ‘giovani e stronzi’. Ecco, io ero nella sezione giovani. Purtroppo. Almeno tra i vecchi mi sarei annoiato e basta. Invece no, mi sono toccati i cugini/e con fidanzate/i. E l’argomento clou è stato il sesso. Ah, che bello! Quello che ci vuole per digerire…! Almeno di solito si parla di merda, argomento su cui, modestamente, posso dimostrare competenza e affidabilità. Invece stavolta, dato che sono tutti/e fidanzati/e, l’argomento era il sesso. Bene! Così si è detto, in simpatia, tra una crespella e un agnolotto, per esempio, che se il partner mangia la cannella, il suo sperma avrà un sapore più gradevole. U-A-U! Questa me la segno, davvero, utile informazione… Ma non solo: il coito cura i sintomi del raffreddore! Potrei pensare a un business con cui arricchirmi. Poi, il meglio del meglio. (Io fin qui avevo mantenuto un prudente mutismo mangereccio: avevo mangiato continuamente, con costanza, senza momenti di ipertrofia né momenti di pausa, così da evitare ogni necessità di partecipare alla discussione.) Decidono di abbinare l’argomento sesso a me – ME – e al fatto che, insomma, a diciotto – DICIOTTO – anni, dovrei avere almeno una qualche vaga esperienza. “Dovrei” non nel senso “è probabile che io abbia”, ma nel senso “sarebbe bene per me avere” una certa esperienza del sesso. E invece, niente. Mia cugina, allora, elabora la seguente teoria: al liceo classico ci sono tante ragazze, ma poche sono carine e meno ancora sono interessanti, perché spesso sono secchione e noiose. Da ciò derivano due conseguenze: 1) possiedo molte amiche 2) perdo momentaneamente interesse nelle ragazze. Infine mi rassicurava, tra un sorriso di scherno e uno di pietà, che non mi mancherà il tempo per rifarmi all’università. Mia sorella, caaaaaaaaaaaara, andava più sul pesante: è venuta fuori la sua gelosia per il fatto che non le racconto niente di me. Non la finiva più di dire che secondo lei non ho ancora (gesto eloquente), che non le dico niente, che lei ha tentato un mucchio di volte di farmi incontrare con la Melania (ecchiccazzoè? macchiccazzosenefrega?), che sono un deficiente, che dovrei seguire la tecnica del se-me-la-dai-bene-se-no-ce-ne-sarà-una-altra-che-me-la-dà, conforme alla mia età e al mio genere maschile. (Ricordo: tutto me presente e davanti a tutti.). Se tutto questo non fosse abbastanza, mio cugino e altri due (fidanzati di cugine) discutevano animatamente per capire-decidere se un loro comune amico sia o meno ‘ricchione’, ‘frocio’, ‘checca’. Beh, ragazzi, vi potrei insegnare degli insulti un po’ più originali, siete prevedibili… E con che argomentazioni! Con quale ignoranza, davvero ammirevole per ampiezza e profondita!

Meno male che c’era Bowie, il cane, che è dolcissimo, così dolce che i suoi stronzi padroni continuano a sospettare che sia ‘un po’ una checca’… Sarà per questo che mi sta così simpatico??

In tutto ciò, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era questa: caro Gesù, io non sono tanto bravo negli scambi economici, però… Però senti questa – e sono sicuro che ne apprezzerai la simmetria: tu oggi, così dicono, sei nato; che ne dici se io muoio?




Fra Cristoforo diceva, maledicendo e minacciando “Verrà un giorno…”. Lo dico anch’io: appena mi trovo un cazzo di ragazzo vedete voi come vi mando tutti affanculo! A-F-F-A-N-C-U-L-O!

Tra l’altro se non si era capito, sono in un periodo da ‘La Cenerentola’ di Rossini (penso di essere l’unica persona al mondo in grado di dare una lettura tragica, decadente e angosciante di un ‘dramma giocoso – opera buffa, in due atti”). E mi sento molto Cenerentola. Ma allora, quando arriva il mio principe, un principe che “sprezza il fasto e la beltà e alla fin sceglie per sé l’innocenza e la bontà”?!?

Meno male che a Santo Stefano si va al lago, se no mi sarebbe toccato replicare il delizioso pasto in compagnia…

CENERENTOLA
(con tono flemmatico)
Una volta c'era un Re,
Che a star solo s'annoiò:
Cerca, cerca, ritrovò;
Ma il volean sposare in tre.
Cosa fa?
Sprezza il fasto e la beltà.
E alla fin sceglie per sé
L'innocenza e la bontà.
La la là
Li li lì
La la là.

CLORINDA e TISBE
Cenerentola, finiscila
Con la solita canzone.

CENERENTOLA
Presso al fuoco in un cantone
Via lasciatemi cantar.
Una volta c'era un Re
Una volta. . .

CLORINDA
(seccata)
E due, e tre.

CLORINDA e TISBE
La finisci sì o no?
Se non taci ti darò…

CENERENTOLA
Una volta...

Oh, come mi sento Cenerentola… Non solo in cerca di un principe, ma anche con delle imbarazzanti manie da casalinga repressa – perfetta massaia di casa…

(Bellissimo questo post di Edgar, soprattutto il finale...)

Doccia = Recollection in Tranquillity

(finding yourself in every drop falling down)

Vorrei passare dallo scarico della doccia
e disciogliermi libero in quell’acqua calda
che, fumante, scende in piccoli vortici
e gorgoglii.

Vorrei passare attraverso uno di quei vortici
e disciolto nel caldo dell’acqua sentire
i tubi in cui scorro, come carezza
che poi mi stimoli

lieve i fianchi, ed il solletico, come i bambini
quando felici gridanti leggeri scendono
giù dallo scivolo.

Tante volte tanto vicino


Aver sfiorato la vita e l’amore,
averne sfiorato il sapore:
sfolgorante immagine della luce
che può brillarmi nel cuore.

Ma presto il buio, presto il freddo: è inverno,
un gelo dei sensi eterno
un gelo dei sensi imposto e penoso:
il mio stesso amaro scherno.

Tante volte tanto vicino
(ma immensamente lontano)
a raggiungere l’unità
che è perfezione geometrica.

Premerò un lenzuolo di lino
su questo mio pensare invano,
lenzuolo bianco che sarà
un’appassita morte estatica.

Fiore
perdi
petali,

cuore
mordi
rosichi

occhi
solo
vedono

vita
che altri
vivono.

Ninna nanna della neve, dolce aspra coperta di un sonno gelato

Silenzio, intorno. E l’aria è di neve,
l’aria è limpida e fredda, fredda
come gemma perfetta e preziosa,
etere trasparente e ialino,
gelo, che puoi guardarci attraverso.

Silenzio, intorno:
il mondo è fermo
cristallizzato
in neve e ghiaccio.
Silenzio, intorno.

Silenzio, e bianco:
solo, lontano,
due solitarie
silenti aquile,
volo maestoso.

Se solo il mondo
si dissolvesse
in un gelido
muto sospiro!
Ah se soltanto…

…solo silenzio!
…silenzio, intorno.

Tibi. Lege et responde. (Chi?)

Per te. Raccomandata urgente ma neanche poi tanto.

Mi piace pensare che tu stia solo aspettando. Mi guardi da lontano, mi studi, mi esamini. Mi pensi, mi sospiri, in un timoroso e tentennante deliquio. Aspetti di essere maturo, e pronto, e sicuro di te; aspetti il momento giusto per farti avanti, attendi il chairòs, il tempo migliore, l’attimo in cui, finalmente, infine, sentirai di aver raggiunto la stabilità interiore, di aver sintetizzato nella tua mente l’autoaccettazione, di averne fatto un monumento indelebile e solido. Insomma aspetti. Finché tutto non sarà pronto, e perfetto, e dolcissimo, fino ad allora tu, appassionato cuoco che cura teneramente la propria fragrante torta, mentre essa, preparata e lasciata riposare – senza fretta! – cuoce e si gonfia e prende forma nel caldo protetto del forno, tu non agirai. Mi piace pensare che questa attesa che crei intorno a te è un pretesto, grazie al quale stai imparando a conoscermi bene, meglio, perfettamente. Così, quando arriverà il momento, le esitazioni, i timori, le paure svaniranno in una nuvola di primavera, bianca e scintillante, ancora fresca, ma sbarazzina nel suo giocare a nascondino con un sole nuovamente caldo, e luminoso, e bellissimo. Ogni remora si dissolverà, ogni indugio sarà un semplice motivo di riso: e, ormai perfetto conoscitore di me, tu muoverai uno sguardo in mia direzione, e poi magari un passo, e diminuirà, diminuirà la distanza fra noi, e due solitudini si incontreranno in un abbraccio. Insieme. Mi piace pensare che sotto al mare calmo e apparentemente immobile, le correnti stiano preparando questa sinfonia, le onde approntino il magico sciabordare che ci cullerà in un duplice sonno, incantati spettatori della tenebra che porta il mare sulle spiagge. Allora mi compiaccio, e mi consolo: finché attenderai tu, attenderò anch’io. E mi crogiolo in questa speranza, che parte già dal presupposto magnifico, indimenticabile, grandissimo, che tu esista. Ma mi piace pensare che tu stia solo aspettando. Non avere fretta: quando vorrai, lo sai, io sono qui.

Matteo

PS: Lo sai? Mi piace pensare che io stia solo aspettando. Ti guardo da lontano, ti contemplo, ti conosco. Ti penso, ti sospiro, in un timido e trepidante anelito. Aspetto di essere maturo, e pronto, e sicuro di me stesso; aspetto il momento giusto per farmi avanti, attendo il chairòs, il tempo migliore, l’attimo in cui, finalmente, infine, sentirò di aver raggiunto la stabilità interiore, di aver sintetizzato nella mia mente l’autoaccettazione, di averne fatto un monumento indiscutibile, quasi un motivo d’orgoglio. Insomma aspetto. Finché tutto non sarà pronto, e perfetto, e dolcissimo, fino ad allora io, appassionato cuoco che cura teneramente la propria fragrante torta, mentre essa, preparata e lasciata riposare – senza fretta! ma con che angoscia! – cuoce e si gonfia e prende forma nel caldo protetto del forno, io non agirò. Mi piace pensare che questa attesa che creo intorno a me sia un pretesto, grazie al quale sto imparando a conoscerti bene, meglio, perfettamente. Così, quando arriverà il momento, le esitazioni, i timori, le paure svaniranno in una nuvola di primavera, bianca e scintillante, ancora fresca, ma sbarazzina nel suo giocare a nascondino con un sole nuovamente caldo, e luminoso, e bellissimo. Ogni remora si dissolverà, ogni indugio sarà un semplice motivo di riso: e, ormai perfetto conoscitore di me (o te? io mi confondo!), io muoverò uno sguardo in tua direzione, e poi magari un passo, e diminuirà, diminuirà la distanza fra noi, e due solitudini si incontreranno in un abbraccio. Insieme. Mi piace pensare che sotto alla neve bianca, silenziosa e apparentemente immutabile, i fiori stiano preparandosi a nuovi profumi, nascosto si stia apprestando il magico calore che ci scalderà in un duplice sonno, incantati amanti di una quotidiana gioia rinnovata. Allora mi compiaccio, e mi consolo: finché attenderò io, attenderai anche tu? Ma mi piace pensare che io stia solo aspettando. Non ho fretta: quando vorrò, lo so, tu sarai qui. Tu.

(Chi?)

Libera mens


Rosmarino.
Fresca e limpida
rugiada di mare.

Dolcissimo sospiro

Dolcissimo sospiro,
lo dedico a me stesso,
sospiratore impago
e canto ormai dimesso.

Dolcissimo sospiro:
non trovo a chi inviarti
e inerme sono e stanco
del peso di portarti.

E allora dico a me:
del male il buio è l’ombra
dell’atra solitudine il diletto:
la mente sgombra e dormi e vai a letto.

Recisi fiori di tranquillità


Spirale elicoidale
di scale

c’è chi scende e c’è
chi sale.

Chi piange al buio
non vede le proprie
lacrime.

A chi piange al sole
le lacrime evaporano
da sole.

La torta nel forno
profuma la casa
come un mazzo
di recisi fiori
di tranquillità.

Sfornata la torta
la gioia freme e bussa
alle narici.

Oggi a scuola...

Solfeggio la nota
più lunga del mondo:
e scoppio.

Mi perdo dunque
in una pausa
che non so quanto duri.

In memoriam. Mihi.


Ed ecco un petalo chiaro e leggero,
ed ecco un petalo turgido e rorido
si stacca dalla corolla e volteggia,
scende in spirali eleganti e aggraziate,
morto, sì, ma gonfio ancora di vita
si posa leggero accanto allo stelo
che ancora sorregge il suo perso fiore,
che ancora, antico virgulto, distrugge
per uscirne, forte e verde, la terra.

Negare, negare, negare...

Un’alba di luce che tutti vedono
a me solo mostra l’oscuro amore
di una speranza affogata.

Pensavo alla scuola, ai test e ad Orazio
mentre già il tempo fuggiva invidioso
verso l’ignoto universo.

Apri il libro
pensa a te stesso
guarda la vita
pensa a te stesso
chiudi il libro
vivi la vita
vivi la vita
a partire da adesso.

Ma la mia mente impossibile nega
la vita oltre i libri, l’amore oltre
la mia illudente poesia.

E vabbè, capita


Io ogni sera punto la sveglia. Mica fuffa. Uno dice ‘puntare la sveglia’. Sai che emozione. Invece è lì che ti crolla il cosmos. Che poi ormai fanno i vetri con dentro una resina collosa, che anche se tutto va in mille pezzi, questi mille pezzi restano belli attaccati lì, non ti cadono addosso. Ma il cosmos di sicurezza, che se ti si rompe non ti crolla addosso, non l’hanno ancora inventato. O ti droghi o ti fai di psicofarmaci. Ma allora tanto vale prendersi un bel cosmos in frantumi in testa… Mica sono sull’orlo del cornicione, no. Anzi stasera sono molto gaio (per non sprecare riferimenti…). No davvero, si è bevuto buon vino, frizzante, che quando lo abbiamo aperto ha fatto un botto da pneumatico che scoppia.

O da petardo nella notte.

O da bombe su una città deserta.

O da cosmos che ti esplode addosso.

Solo che quello il botto te lo fa dentro, in un punto indefinito tra le costole e il cuore. Non lo sente nessun altro. No, giuro che non sono sul cornicione. È solo una presa d’atto. Una bella attivazione di quella facoltà della mente che chiameremo ‘coscienza di valere una pippa e di contare anche meno’. Ma al di là di questo, si parlava di sveglie. Ecco, la sveglia è un ordigno infernale. Con quel suo cavolo di pulsantino, che ogni sera devi andare lì ad accenderla, se no il giorno dopo puoi anche dire addio alla scuola. È infernale perché per questo motivo tu devi fare la stessa operazione – accenderla – ogni santissimo giorno. È infernale perché ti rendi conto di quanti giorni passano. È infernale perché ti ritrovi lì, a puntare la sveglia, senza quasi distinguere un giorno da un altro, con la consapevolezza di essere arrivato a sera, ma senza sapere come. Ogni volta che si punta la sveglia, è uguale alle precedenti. E così ho la percezione netta e distinta di come i giorni si susseguano uguali, sempre a vivere a metà, sempre a finire col puntare la sveglia. Sempre a darmi l’appuntamento alla sera successiva: “Senti, adesso punta la sveglia e vai a letto. Poi domani ci vediamo ancora qui, sotto questa lampadina analfabeta e tiranna della sua poca smorta luce, davanti ai numerini rossi del display, più o meno a questa stessa ora. No, no, tranquillo: non me ne frega niente di cosa fai domani, con chi ti vedi, quanti votoni o votacci prendi. Basta che domani a quest’ora sei ancora qui a puntare la sveglia. Allora, solo allora, ci rivedremo. Prima no. È meglio”. Magari qualcuno potrebbe anche chiedersi tra chi avviene questa discussione. Bella domanda. Se lo chieda e si risponda anche, perché io non lo so e non mi interessa. Succede. E mi andava di scrivere così. Non è giusto comunque: uno punta la sveglia e gli scoppia il cosmos addosso. Come i petardi: mi è scoppiato il cosmos in mano. Mi sono partite le dita;

l’indice si è conficcato nella Polare, che ho passato un monte ore paragonabile a una settimana scolastica per cercarla quest’estate, sempre col dito puntato al cielo;

il mignolo si è incastrato tra il fa e il fa diesis del piano, dato che nonostante la tonalità si bemolle maggiore, io continuo a ficcare dentro (direi: surrettiziamente…) il fa diesis: prima o poi Bach mi trasforma in una canna d’organo, condannandomi a fare il fa naturale per l’eternità;

l’anulare l’ho perso, che tanto non porterà mai un anello;

il pollice si è confitto sanguinante nel dizionario di greco, a perenne monito per chi, come me, tiene il segno delle pagine con tale dito: mai e poi mai il diro e crudele greco renderà la dita a chi gli porse una mano;

chi manca? il medio; il medio mi è rimasto; è macabramente l’unico ancora attaccato alla mano, lui, solo lì in mezzo, in uno scenario vuoto, sanguinolento e livido. Ma lui, lì in mezzo, se ne sta fieramente alzato, a mandare affanculo il mondo intero. Ma queste sono altre storie, altre disgrazie… In fondo quando vedi che il cosmos crolla intorno a te, se hai del buon vino frizzante, puoi anche sorridere.

Osò guardare la reggia che crollava con volto sereno.

Poi fa niente se il personaggio che osò tanto, pochi versi dopo si suicida.

E vabbè, capita.

La salute ammalata

La salute non è tale perchè non si ammala mai.

Anche alla salute, a volte, capita un malanno.

Iemale naso rubicondo

Io penso.

Vedi come là vicino alla cima se ne sta
la neve, alta, sospesa, indefinita?

Ti pare che rifulga il candido brillante
così in sé concentrato ed indifferente.

Vedi che nevica e piove, vedi che il freddo
è sceso a irrigidire i movimenti, arrossare i nasi?

Dal cielo grande tempesta: le correnti
dei fiumi si sono gelate.

Abbatti l’inverno, aggiungendo
legna al fuoco, cingendoti le guance
di morbide sciarpe di lana.

Vedi che la neve è ferma e si muove?
Vedi che la neve risplende gelida?

Scaldati al camino, se puoi,
trova qualcuno.

Vedi come sono solitarie quelle bianche cime?
Solitarie, fredde, bianche e maestose.

I picchi scoscesi
e le cenge abbarbicate
ai fianchi dei monti
invernali
mi guardano contemplarli
così immensamente
stupito stupido e solo.

Io penso.

Discon nes sion e In t ell et tiv a

Petali d’alba
stamane
hanno dischiuso il giorno
alla mia assonnata presenza.

Quante domande navigano
nel mar dell’intelletto?

Quanto poco basta a turbarmi?

Una frase.

Quanto poco basta a turbarmi?

Un’altra frase.

Sono turbato.

Ed ancora c’è chi teme
l’orribile disgrazia!

Ne rido? Non posso.

Ecco il mio pensiero
come funziona:
vedi sopra.
A strappi ed a spezzoni
esso procede.

Palim palaios

Che bella, questa giornata.
È bastato solo un sorriso
per farmi sentire l’odore
dolce del bosco autunnale
fra scialbi banchi di scuola.

Che bello, è stata un’occhiata,
un abbraccio che era intriso
di amicizia e di calore,
per lenire il mio male
senza neanche una parola.

Too much - Explode

L’affetto che provo è troppo.

Troppo bene io voglio a troppe persone.

Dovrei andarmene via.

Non è fuggire, no, non è scappare.

È cercare nuova gente.

Nuove relazioni superficiali.

E da lì ricominciare.

Senza quella paura di ferire.

Certo senza affetto, è vero.

Senza quella paura di ferire.

Non c’è profondità, è vero.

Senza quella paura di ferire.

Ricominciare da me.

Senza quella paura di ferire.

Vivrei in un annullamento della mia persona,
un annullamento in cui emergerebbero
i miei veri caratteri, gli istinti, l’impulsività,
senza quella paura di ferire qualcuno,
libero dai legami
ricostruirei una vita soffocando il vuoto
con la novità.

E poi?
E poi?
E poi?

Non c’è scampo.

E poi?

Paignion, scherzo, anzichenò

Ho un dubbio
metafisico:
perché la gente
inorridisce se descrivi
te stesso mangiante
la porchetta?

Temo che l’orrore stia
nella parola ‘porchetta’.
Ma allora mi devo accorgere
di quant’è l’ipocrisia
di gente che non ha schifo
a dire col cuor leggero
negro, ebreo, diverso, frocio,
ma pensa il suino salume
con disgustato ribrezzo:

lo mangiano con gusto,
ma guai a sporcarsi la bocca
con l’odiata parola!

Nox cuna hominum

Nox erat et placidum carpebant fessa soporem
corpora per terras silvaeque et saeva qierant
aequora… e quando in mezzo al giro sono
le stelle, e dorme, dolcemente dorme
il mondo, il campo fragrante, il gregge,
dormono gli animali, l’acque, le rocce,
dorme la notte addormentata e posata
con delicatezza sulle vite pulsanti
e si spegne l’aspro fragore del giorno
e s’assopisce il tumulto dei pensieri
e più chiaro e più distinto appare
questo ardito ma indolente vago girare,
al nulla condannato e qui cullato
da questo buio che al buio maggiore
la mente, suggerendo, porta, conduce,
mi appare la dolcissima illusione,
figlia della luna e di queste tenere
nubi, che una chiara manciata
di stelle trafigge senza pianto
né dolore, solo un sussurro di astri in moto,
illusione che l’impalpabile farina
della esistenza che ci teniamo stretta
sia cuscino di una culla molle,
sia la ninna nanna che sussurrano i cirri
nel cielo, le note di un fungo che cresce,
il vago presentire di un domani incerto,
un soffio caldo che scuote l’aria immobile
della lucida sera che dorme all’aperto,
velata da una coltre di nuvole, labile,
l’illusione che esista in un punto ignoto
tra la luna e le galassie, tra gli atomi
frementi in una ordinata calca, un senso,
un profondo senso perso e dimenticato,
un senso che consoli l’errabondo muoversi
degli astri, della terra, del pensiero nostro,
del giorno frenetico, delle vite pulsanti
e delle rocce, dell’acque e degli animali,
del gregge che bela, bela ancora nonostante
tutto, del campo fragrante che un contadino
cura e un pensatore ammira, del mondo
che danza regolare nello spazio e ripercorre
il sinuoso e materno moto di una culla.

Mechanismos

Questa strana sensazione di vago terrore,
un fischio ovattato alle orecchie
ed il collo che pulsa sangue,
deglutisce sangue,
sanguina.

L’horror vacui che nell’arte non capisco
(più bello è quel senso indefinito,
quanti inutili fiorellini morti)
mi ha incatenato
qui.

Monta un’onda spumosa e affogo
nel rogo di quest’incertezza,
carezza agognata
morte.

E mi chiedo che senso hanno le lancette
di un orologio, girano per un nulla
che non le ringrazierà mai:
meccaniche.

E mi chiedo che senso hanno i giorni
di una vita, si seguono per un nulla
che non li ringrazierà mai:
meccanici.

Questo grande appuntamento con la vita:
domani ci troviamo ancora qui.

Perché?

La luna dopo un più forte sole

È notte e mi rimbombano
le orecchie; confusa la mente è invasa
da tante e tante immagini di vita,
suoni, stranissima normalità.

Normalità inesistente, persone
suonicolori, un grande turbinio,
un vortice, continua a imperversare
col suo rumore nel silenzio vuoto.

È notte e sono solo,
mi rendo conto che non è per me
tutto quell’happy hour nelle strade,
tutto quel formicare brulicante.

D’altra sostanza sono fatto io,
una ben più sottile solitudine
chiede in me silenzi da cattedrale,
non voci della fiera della vita.

Ma la fiera misteriosa e ignota
coi suoi colori e i suoi angoli bui
è la magia che affascina i bambini:
con le gambe molli per il terrore,

con una strana gioia curiosa,
si aggirano – eccitatissimi ciechi!
Anch’io con paura di estraneità,
m’aggiro in questa festa colorata:

un avido e un pauroso della vita.

Ecco, Cartesio era un genio

Comunque Cartesio era un genio. Sì vabbè quella storia della ghiandola pineale non mi piace… e nemmeno questa gran necessità di dimostrare l’esistenza di Dio per avere garanzia del mondo esterno… Mi sta, sinceramente, molto più simpatico il genio maligno, di Dio. Però in questo suo essere un paciugo, mi piace. E mi rendo conto di viaggiare su due binari differenti. Grazie a lui. Ecco, mi appare chiaro che io sono res cogitans, mentre tutto quello che c’è fuori è res extensa. Per simpatia le chiameremo Cogy e Exty. Ecco, le mie amiche Cogy e Exty non si cagano di striscio, per usare una raffinata locuzione ascrivibile a quel linguaggio di registro aulico e dalla perfetta forma espressiva (gran labor limae!) che tanto piacque ad innumerevoli schiere di poeti dei secoli passati. Ecco, è chiaro che i contenuti di Cogy, che con un moto gratuito di originalità creativa chiamerò “idee”, sono veri solo se corrispondono nettamente a un qualcosa contenuto in Exty. Questi qualcosa sono enti, e noi li chiameremo “enti”. Quindi se hai l’idea di un ente, ma questo ente non esiste, sono pippe. Sì, sono proprio pippe mentali (terminologia descrittiva di chiara origine medico-ippocratica, già in uso prima della nascita del nonno di Ippocrate, grande amico di un nipote di Esiodo ahimè morto prematuramente a causa del gran buio del medioevo ellenico – quegli stronzi di micenei prima di sparire chissà dove avevano nascosto tutte le lampadine – che gli ha cagionato una gran caduta dalle scale). Se però l’idea di ente corrisponde a un ente vero e esistente non mentalmente ma fisicamente e innegabilmente, solitamente si dice che quell’idea è vera. VERA! Se no, e falsa. FALSA! Ecco, allora mi spiego tante cose. Ma proprio che adesso tutto, agostinianamente, ungarettianamente, mi si illumina. Ci vedo chiaro. Ecco, mi appare sotto l’illuminante fanale 20 000 W della filosofia cartesiana che io ho una bellissima idea di amore. No, giuro, proprio bella. Ma proprio che, ecco, insomma… così magnificamente inspiegabile, così goduriosamente dolorosa. Un “Pozzo&Pendolo S.p.A” creato da me stesso medesimo che però è quasi irrinunciabile. E per tutto questo po’ po’ di bendiddio di Ammmore… per tutta questa grande idea… esiste dentro Exty un ente corrispondente, un qualcosa che sia fisico, non puntiforme, dotato delle stesse caratteristiche sintetizzabili in “eros e thanatos”, capace di rispondere a quell’idea bellissima con la sua esistenza reale e tangibile?

Odo risate provenire da lontano.

Ecco, Cartesio proprio che mi ha illuminato. Buio.

Ecco.

Vigilia della battaglia di un guerriero che combatte verfiche

Lo studio la vita…
sembra una confusione piena
è un vuoto…

ma ha la capacità
di braccarmi
e sfiancarmi
come se fosse
un continuo appuntamento…

qui, un attimo
di pace…

NOOOOO

mi ha trovato…
anche qui…
fuggo!

Il mio filo rosso

Io ne sono sempre più convinto. Il bosco respira. Se lo guardi bene, nelle giuste condizioni di luce, nel primo crepuscolo, con la luce già rosata, ma ancora forte, limpida, a picco, potresti vedere – ma bisogna saper guardare – potresti vedere che la sua grande massa verde si muove di un movimento impercettibile. Ne sono convinto: respira. È una certezza che mi accompagna, che mi deve accompagnare. Una certezza, davvero, che mi segue come una madre, una figura confortante, una culla del mio essere stanco ed ancora affamato. Come è bella la morte che dicevano gli antichi: “è morto, sazio di giorni”. Tutto ciò che voleva l’ha avuto. E basta. Io no, ma il bosco respira.

Io no, ma il bosco respira.

Io no, ma il bosco respira.

È un loop. Come un circuito integrato, mi si incanta il cervello su una singola frase, la ripeto, all’infinito, nella mia mente. Sento una voce, che è la mia, dire quella frase centinaia di volte. E me ne convinco. A scuola tentano di ucciderti soffocandoti sotto una mole di spiegazioni e studio? Ok, ma il bosco respira. Aspetti un treno e, con quello, vedi passare e andare lontano anche il sentimento più puro e doloroso – strano ossimoro, strana realtà! – della tua vita? Ok, ma il bosco respira. Vivi in uno stato di sospensione, come un corpo che non galleggia né affonda? Ok, ma il bosco respira. Sospensione. Non c’è nulla di certo e galleggi ed affondi, un po’ su, un po’ giù. Little high, little low. Alla fine la panacea è vivere la giornata: spegnere la mente, smettere le domande, riporre l’abito del pensatore ed indossare quello sgualcito, ma comodo, della sospensione. Prendere ogni giorno come viene, senza la pretesa di arrivare alla fine. Senza domande. Le domande vanno lasciate per quei momenti di solitudine in cui puoi permetterti di affogare dolcemente nel tuo mare di amarezza. Amarezza perché in questa sospensione, in questa grande epochè, in questo relativismo cosmico, mancano i punti di riferimento, manca un’identità propria e definita. Come trovarsi in un grande prato, verde e bello, ma così grande che non se ne vedono i confini: senza riferimenti, rischi di vagare in una direzione convinto di andare in quella opposta e, quando ne esci, quando te ne ritrovi fuori, ecco che ti accorgi del colossale sbaglio. Non arrivi mai esattamente dove vuoi. Bisogna guidare la vita come un parapendio: certo le maniglie ci sono, certo puoi dirigerti un po’ a destra o un po’ a sinistra. Quelli più bravi spesso centrano persino il punto di atterraggio. Ma per gli altri è un viaggio in balia dei venti e delle correnti. È un’approssimazione. Un’approssimazione al centesimo della vita. Circa, ma non di preciso. E così vado a letto sull’orlo delle lacrime e mi sveglio con un groppo in gola. Ma mi zittisco: vivi un’altra giornata, stupido, ci vuole così poco. Solo altre ventiquattro ore, per poi essere di nuovo qui a trattenere le lacrime mentre punti la sveglia. Quel che succede non importa. Importa solo ritrovarsi qui tra ventiquattro ore. Ancora. Per sempre. Nothing really metters, to me.

If I'm not back again this time tomorrow

Carry on, carry on, as if nothing really matters

Adesso i benpensanti mi daranno del nichilista. I benpensanti, però, non vedono la propria vita come se ne fossero spettatori, non vedono la propria vita come sospesa tra il tutto ed il nulla; il tutto, anelito alla conoscenza, all’essere ed al fare, das streben; il nulla, il vuoto solitario, le inutili facelle che ghignano per questo nostro vagare tedioso e sadico. Se costoro oscillassero come me, se, come Medea, fossero tirati da due cavalli, uno indirizzato dalla ragione, uno dalle passioni, in due direzioni opposte, allora non oserebbero tacciarmi di nichilismo. Piangerebbero forse. Non è, questo, nichilismo. È, più grettamente, più meschinamente, in modo certo più consono alla mia natura profonda di cosa, di res extensa, di statua di merda che si trascina grondante nel letamaio della vita, sopravvivenza. Un mero spirito di sopravvivenza. Un’arma, un’ascia bipenne che per ogni colpo dato te ne restituisce uno di eguale forza. Come son veri i principi della fisica! Conservazione del moto! Bisognerebbe riformularlo come principio di conservazione dell’odio, del dolore. Ed in ciò sarebbe compiuta l’umana conoscenza, in ciò si troverebbe la risposta agli interrogativi del nostro essere sospesi: nella nuova fisica, la fisica del pianto. Riformuleremmo la nostra vita sotto la luce della consapevolezza del male che ci attanaglia, dell’inevitabilità del dolore, della giustezza della nostra sfiducia nel tutto. È un teatrino con uno squarcio nel cielo di carta. In quello squarcio ci siamo persi, il lanternino della nostra vista ha avuto la presunzione di elevarsi entro lo squarcio per scoprirne i segreti, scoprendo invece la sua inettitudine. Chi ci ha provato lo sa. È ormai affetto da un male curabile, forse, spero, ma indelebile. È un disadattato alla vita. E non c’è modo di riabituarsi a vedere la vita ignorandone il vuoto, l’incertezza. Apparirà sempre come un cosmo dal ferreo determinismo. Che paradosso! Una vita d’incertezza è un cosmo deterministico! Ma certo: un ordine così complesso e serrato ma di cui non si vedono i confini, i riferimenti. È quel prato, grande e verde, dall’erba curata – pure ben piantumato! Ma al suo interno ci si perde, abbandonati dal senso, preda delle domande. Un ferreo determinismo: non importano le scelte, non importa il singolo percorso di ognuno (non in ciò è deterministica la vita), quello che importa è la comune fine ed il dolore comune. Le cause, le premesse, ci sono. La concatenazione degli eventi, poi, è logica e prevedibile. La fine è scontata. La vita è una malattia che si conclude sempre con la morte. Come i greci sapevano già la trama delle tragedie che andavano a vedere e nello spettacolo non cercavano il colpo di scena, la storia, the plot, ma l’interpretazione, il modo in cui quel materiale noto potesse essere rimaneggiato, così la nostra vita, tanto prevedibile, tanto povera di trama, ci riserva l’unico gusto di scoprire in che modo il filo rosso che sottostà al prototipo comune di esistenza sarà infarcito nel nostro caso. Ed è un gusto amaro. Il gusto amaro di scoprirsi filo rosso dagli estremi indefiniti, sospesi (così fragili, così sottili) in un nero nulla cosmico. Un filo sospeso. Rosso come il sangue, caldo, nelle vene.

Dolcissima Lyssa

Strano mostro tu vedi ogni mattina:
paurosamente assomiglia all’amore
che cerchi in un assolato deserto,
questa vita, un rincorrersi di dune.

È un lui spiantato e senza testa, stolto
diresti al primo sguardo, un po’ perso
tra strane strade che non sai seguire.
Ti si affaccia un pensiero: di più valgo!

Ma è poi vero? A volte te lo chiedi
e la risposta tentennante indugi
a darti: temi d’essere smentito.
Strano mostro io vedo ogni mattina.

Bellezza dischiusa alla notte

Cala morbido il buio, invade
le strade, corteggia i lampioni:
il popol dei vivi s’addorme.

In queste pennellate di nero
è ferma la vita, il respiro:
la bella di notte si apre.

Delicati petali che fate capolino,
un invisibile cespuglio cingete
d’un amore che non vedrà nessuno.

La vostra bellezza la notte
si mangia; nascosti nel buio
danzate il vostro sottile sbocciare.

Dischiusa alla notte
la vostra bellezza,
l’alba attendete,
vi nascondete.

Bella di notte io sono:
i petali miei son parole,
la mia bellezza dischiudo
al buio incantatore:

che nessuno mi veda cantare
e danzare i miei versi per lui.

Al buio dono i miei versi,
li dono di tutto cuore:
nascondimi soffice buio,
che possa sembrarmi la vita
una bolla cullata dal sonno,
una morbida culla
di sonno.

Inter me

Fa bene
camminare
da solo.

Da solo cammino e dietro
i passi sento pesanti,
coi passi odo risate:
ma ugualmente procedo,
io, solitario come
i vecchi nei campisanti.

Come loro ascolto il silenzio,
come loro sproloquio coi morti,
accompagno il muto discorso
con un tacito gesticolare.

Nell’aria sento domande
e fastidio – sono asociale?

Ma non mi curo del mondo,
coi morti son dietro a parlare!

Eos

La lunga notte fu lunga a passare,
tra le zanzare ed il fosso umidiccio:
il sonno vegliava i dormienti,
noi vivevamo il momento.

Nel buio le stelle impallidirono
ed il cielo cominciò a scolorare:
l’alba dalle dita rosate
era azzurra, quel giorno, sul mare.

Una luce fredda che spazza la mente
travolse anche il sonno degli altri:
già nelle case senti svegliarsi
della notte gli stanchi morti.

Dissolvenza

Che strana la nebbia di sera,
il buio già non bastava?

Che strana la nebbia col buio,
la sera ne è vittoriosa!

Che strana la nebbia che guardo,
stasera, confitta nel buio

e nel buio si muove la nebbia,
accarezza la torbida sera.

Stasera io guardo la nebbia,
danzare nel buio per me:

in essa mi sento affogare,
nel buio, tranquillo,
mi dissipo.

Decima Musa

A me, a me pare uguale
agli dei, uguale o addirittura,
si fas est, mi pare superiore,
più grande degli dei immortali
mi pare
colui
che accanto a te, al tuo
corpo vicino, così a te
vicino,
ti sente e ti vede
e vedendoti ti sente
ridere dolcemente
parlare amabilmente.

Mentre io ti guardo
e ti ascolto
– ma tu non lo sai –
vedo lui che ti sente
e ti vede
– così da vicino! –
e mi sembra superare
gli dei:
vede e sente te che ridi
dolcemente
e parli
amabilmente;

questo davvero mi sconvolge
il cuore nel petto
e la lingua mi si
spezza, sotto la pelle
rapido corre un fuoco
sottile, un nero sugli occhi
mi scende, il sangue
martella tonfi nei lobi,
gocce gelate precipitano
lungo il mio corpo
e tutto tremendamente
mi prende un tremore
e perdo il colore
fino ad essere
verde
e sento
sento
che
svengo
e sento,
sento
che
muoio.

Tutto bisogna sopportare.
Ripeto nel cervello che
tutto bisogna sopportare.
Perché…

Amabile Saffo, dolce ridente
coronata di viole,
tu decima Musa,
perché?

Tu lo sapevi, avevi trovato
un perché.

Tu lo sapevi, soffrivi,
sopportavi,
ma sapevi il perché.

Epei.

Il furto del tempo lo ha cancellato:
io non lo so più perché sopportare
tutto questo si deve. Ma dimmelo

dimmelo Saffo,
dimmelo.

Io non capisco,
risposta
non trovo.

Per quanto io cerchi

Non trovo.

Di rosso e di blu s'è tinto ormai il cielo...

Di rosso e di blu s’è tinto ormai il cielo
e gonfie lontano passan le nubi.
Combatton ritagli di alberi neri,
con quella luce accecante, morente.

Scende il sole, scende il freddo: è sera.
S’alza una brezza calda e inaspettata:
è sera. Odore di umida terra e foglie.
Muta la sera padana ci tiene.

La notte la bracca dal lato oscuro:
impaziente vuole compiere il suo
destino di bui sospiri o amore.

Il giorno si aggrappa all’ultimo raggio:
con dignità regale cede il posto,
antico conflitto di luce e ombra.

Goccia a goccia

Dal fondo ghiacciato del denso mare,
dall’algido azzurro dei flutti, emergo
mi specchio nelle onde, mi scruto, vedo
un essere patetico su un rosso
vulcano.

Se fossi sul ciglio,
sul ciglio bagnato
di lacrime,
di un grande vulcano,
se fossi in vetta al cielo
e all’universo,
se,
se fossi,
se fossi sicuro del mondo,
se fossi riamato,
se avessi
avessi
avessi almeno
almeno una
una certezza…
se,
se tutto questo,
se fossi, se
fossi…

io allora sarei,
sarei,
sarei non dico,
non dico,
felice,
no non felice, ma,
ma almeno,
almeno,
sereno.

Sono gorghi di fuoco, avete notato
che bello il rosso del
sangue, che bello quel rosso
che non ne esiste un altro uguale
è il sangue rosso che è bello perché è una goccia
un rosso, rosso rubino, una gemma, una goccia, una stilla, una goccia,
la goccia, la stilla, la goccia che esce, che esce,
solo una alla volta, una
una alla volta, la goccia

plin

la goccia che esce che tintinna sul pavimento è rossa, passione
passione dei sensi
patior, ah pazienza, pazienza che
si è esaurita, che bello
che bello il colore
del sangue

plin

è un rosso senza uguali, è un vermiglio
che lampeggia, nessuna rosa, nessun
geranio, nessun rubino,
nessun inchiostro può
imitare quello splendore, il
sangue, il dolore, la morte.

plin

Tramonta già, è di sangue anche il cielo,
tramonta e mi abbandona la luce,
mi lascia a queste tenebre amiche,
mi lascia a queste tenebre ignote:

plin

a nulla vale una finta lampadina.
È l’unica luce nel buio e splende con rosso fragore:
l’unico lampo nel buio,
è sangue.

plin

Sfera di cristallo

Un vasto monte, una grande pianura,
l’acqua increspata
da un soffio.

Un soffio nell’aria, un soffio al cuore:
è l’aria nei polmoni
che trafigge.

Pugnali nel corpo: ma veri o solo
immaginati, sogni
di un sogno?

Un sogno, incubo che questa notte
mi ha visitato: ero morto
e danzavo.

Danzano i soliti visi sul pullman
ogni mattina: è un ragazzo
col volto indurito:

le cuffie alle orecchie, lo sguardo
lontano ed il volto
indurito.

Ha gli occhi di un cervo ed il cuore
indurito: la pietra nel petto
che tonfa.

Ma lontano è tutto, lontano da me:
son laghi e montagne,
la pace dei sensi.

Silenzio io cerco, silenzio e quiete:
tappare col nulla il vuoto
del mondo:

è l’ignoranza, è la fobia, stupidità,
ma resta immutato intorno
a me il deserto.

Solo conforto mi danno questi alberi,
lenti, alberi lenti, alberi
verdi, alberi

mossi dal lieve fiato, sospiro, sospiro,
agognata pace, pace e sospiro,
un soffio

che agita un lago profondo, il mondo,
un soffio di vita ristora
una bolla di vuoto.

Lux moritura vivens

Sull’immota acqua lacustre
tanti trucioli di luce,
splendono.

Vibrano.
Anch’essi immoti, ma vivi,
tremanti; prima del buio.

Attesa

Buio, scuro.

È notte ed è buio.
È notte ed è scuro.

Sono sole le luci
che vedi laggiù in fondo:

sole, solitarie,
brillano nel denso

liquido solido
nerastro che è il cielo.

Stanotte succede,
lo sento qualcosa

distrano, distrano.

Qualcosa succede
stanotte distrano.

Una sirena:
che pianto nel buio!

Succede lo sento:
la senti una sirena?

Ulula-ulula
Buio
Sirena
Morto?
Successo?
Che cosa?
Che cosa?
Che cosa?

Buio, scuro.

Riflesso

Ogni mattina, grigio, arancione, blu. Ogni mattina il grigio di un cielo stanco, mezzo addormentato, l’arancione informe di un autobus che emerge da un sogno, il blu verticale dei pali: “reggersi agli apposti sostegni!”, “salire solo con biglietto di viaggio valido e convalidato”. Allitterazione bimembre a contatto e trama fonica nel fonema “v”: che noia. Ogni mattina quel solitario dondolio, che culla d’infante!, quella luce sporca che filtra dallo sporco setaccio di un finestrino, quel paesaggio in bianco e nero, smorta fotocopia di un mondo vivo. Potresti guardar fuori e vedere macchine o navicelle di UFO, potresti vedere alberi o bambini impiccati: tutto passa via veloce dietro quei vetri immondi. Sempre quel clima caldo-umido da foresta equatoriale, sempre quei bocchettoni ardenti di flussi ed esalazioni calde, sempre quell’aria spessa, quasi cento nasi che respirano, i finestrini chiusi, poco ossigeno. Ed ogni mattina, in quel sacro pellegrinaggio immerso in uno strano dormiveglia, in quell’attesa (di cosa? della fermata? di un risveglio?), vedo sull’autobus un ragazzo. Strano. Avrà, non so, la mia stessa età. Mi sembra di non conoscerlo e mi pare di conoscerlo. Chi è? Non lo so: che importa? Eppure è lì, tutte le mattine, lo sguardo perso. Le cuffie nelle orecchie, una musica in testa, un vuoto intorno. C’è una luce balbettante, sugli autobus mattutini; c’è un brusio costante, ma non quel gridare forte, quel baccano che si trova nel primo pomeriggio. È un baccano sì, ma ovattato. Attutito. È un baccano addormentato, uno di quelli che stanno ancora avvolti nelle coperte colorate che sfidano con sorrisi di tessuto il gelo del mattino. Io sogno e non saprei dire se sul bus ci sono stato un’ora o un minuto. E vedo quell’essere immobile dalla testa incorniciata dalle cuffie di un MP3, un mostro ancestrale; che triste: una faccia come tutte che dondola alle curve e sobbalza alle buche, una faccia e niente di più. Una distanza enorme, pensieri inafferrabili e ignoti, pensieri che danzano sulla musica che ascolta, quale che sia, non so. Che triste: mai una parola, sempre una concentrazione totale in sé, una vista che non vede, una presenza che non c’è. Corrono gli autobus di fretta, corriamo noi; ma lui, ogni mattina, sarà lì, perso, muto, a ricordare al mondo un’essenza di lentezza senza fine, di parole inutili che attendono il silenzio, di musica a bocca chiusa, melodie perse tra il fragore delle mille gocce di una doccia, una cascata. Sarà l’emblema di un niente vecchio come il mondo, l’emblema di un’assenza, simbolo del fittizio, dell’ingannevole, del falso quotidiano. Portatore di una sconosciuta calma, un’ignota ricchezza, un mistero: cosa pensa, nei suoi infiniti viaggi in pullman? Cosa sente da quegli auricolari? Cosa cela la sua imperturbabile stabilità? Chi è?

Molte mattine mi hanno visto assorto in questi pensieri, in queste domande, invano. Molti autobus sono passati, mi hanno trasportato, e con me hanno trasportato anche la mia curiosità, il suo mistero che non riuscirò a comprendere. Molti finestrini appannati sono stati trafitti dal mio sguardo svogliato. Infine tutto è stato chiaro. Ho riconosciuto quella persona. L’ho riconosciuta, ma mi chiedo ancora chi è. L’ho riconosciuta guardando fuori, guardando quel riflesso nel vetro: e il vetro, il riflesso nel vetro, mi guardava a sua volta, svogliato come me, con le cuffie nelle orecchie, anche lui!, con un’aria persa in un tepore di dormiveglia, con chissà che pensieri in testa. Niente più che un riflesso. Io sono lui, lui è me. Niente più che un riflesso in un vetro appannato. Ma chi è?

Tears

Il foglio bianco inerme guardo:
voglio scrivere,
non so che cosa.

Da tanto ormai io non scrivevo:
la stanca mente
si rifiutava.

Bianco foglio ed inerme io:
o foglio, foglio
figlio d’un pianto.

Pianto umido, ancor bagnato,
diluvio ed onda
ombra e singulto.

Teodicea

Era il falco ed era
la montagna?
Erano, forse, lo squalo e
il grande abisso del
mare?

O, forse, non erano altro che topi
danzanti attorno a quel poco formaggio?
Altro non eran se non degli insetti
che conoscono soltanto un tramonto?

Dio dei topi, Dio
del formaggio!
Immane Divino
che ronza speranza alle
mosche!

Che grande, tu sei!
Che onnipotente!

Ebbene una danza stonata
un canto buio
tu puoi dirigere
senza pietà:
danza di topi ed insetti.

Non credo in
te:
sei tu che hai detto
che sono sbagliato.

Tu,
dio bestia,
razzista.

Spes ultima dea

Io:

Amica mia, Spes,
perché mi abbandoni?
Forse che, amica,
Spes, forse che
ti tradii?
Perché, Spes,
amica cara,
amica senza cui
la vita!
l’affanno!
si fanno
insopportabili!
perché?

I miei occhi ai suoi intrecciai, gli occhi e il cuore,
la salda corda tu eri, amica mia,
mia Speranza: ma il nodo tuo sciogliesti!

Amore mi negasti: recidiva,
arida! sterile! ingannatrice!

Godi forse tu nel scioglierti proprio
quando più forte ormai a me sembravi?

Spes:

Accusatore ingiusto:
non fosti tu a crearmi e darmi
vita?

Dovrei pentirmi io delle illusioni
del tuo stesso cieco animo dolente?
Non conoscevi già il risultato
quando ti affidasti a me, tu, ottuso?
Non sapevi, Cassandra di stesso,
che l’amor tuo è un seme sulla roccia?

Io:

Sapevo, crudele!,
sapevo eppur lo volli!

Ma di te ho bisogno, amica Spes,
perché ostile mi è Amore!
Non ordino, né chiedo: io ti prego!

Fingor

Nella luce finta della lampadina,
nell’estraneo calore di casa
rimpiango quel pungente freddo
che so essere, gelido, là fuori.

Umide ombre del bosco percorso
da corse di vento, da Aquilo freddo,
dell’arïa nel tremito frizzante
libertà alle nari mi portate!
Libertà, nel vento vento, volare
sopra, dei bruni alberi, alle cime
seguendo il latteo lunar sentiero
seguendo il ritmo delle mie ali nere…
le stelle ardenti vedo e il nero cielo
l’oscuro frusciare di foglie indistinte,
Settentrione mi invia il suo vento freddo
la mente mi rapisce, su di esso
volo via da qui, da tutta questa
finta luce, finto calore, finto
me.

Ma no! No! Non mi raggiunge
il fresco alitare umido del bosco!
In casa sono, al chiuso!
Fuori mi attendono
gli alberi fantastici
dai tronchi pieni di odorosa muffa,
i sassi verdi conficcati al suolo
morbidi di muschio.
Io non la sento la boreale brezza
che fredda i sensi obbliga al risveglio:
io non la sento,
muta spoglia, le braccia
incrociate al petto,
la bocca in un ghigno ultimo incrinata,
sul petto un rosso fiore trema
e cade,
muta spoglia, non sente
la brezza, un palpitare
rosso, trema
e cade.

Mistero

Ecco un uomo fortunato
e sereno.
Felice?

Ecco un uomo fortunato
e sereno:
ma cosa

è quella?

Come su foglia pallida del sole
dell’alba nuova e rosata, una lacrima
goccia dell’umida terra che secca

spunta sulla rosea guancia abbronzata
piccolo lucente diamante.

Cos’è?

Io lo so: è
il rimpianto del poco
coraggio
di dire:

“C’è di me una cosa
che non sai…”

Palpita piano

Era sera ed ero stanco: che strana vita di luce nel buio e d’ombre tra le fiamme. Tra i più minuscoli puntini luminosi di una televisione non c’è forse uno spazio vuoto, una tenebra indecifrabile, un’amara indefinitezza? Non c’è, forse, anche nel giorno di sole, la nuvola candida che oscura un attimo il chiarore meridiano? E se non c’è, non siamo noi stessi a ricercarlo, quel momento di buio, quell’attimo di tregua per gli occhi affaticati, abbarbagliati dai raggi laceranti? Ed assecondando la richiesta pregata ed urlata delle pupille, assecondando il corpo che si scioglie, rifuggiamo il sole, ricerchiamo ombra e frescura, ristoro delle membra, solitaria pace che sopraggiunge ed imperversa nell’animo abbagliato. Così, pare, ci fuggiamo, mettiamo distanza tra noi e noi stessi, accecati dalla consapevolezza di un’identità che non è mai propria, che ha sempre squarci di luce capace di ferire e ombre buie ed insondabili che, soltanto, possono suscitare timore, terrore, ampi beccheggi e rollii di una sicurezza vacillante. Grande palazzo in preda al terremoto! Li senti, i laceranti scricchiolii? Odi questa crepa che, brivido lungo la spina dorsale, lo percorre dalle fondamenta, dal basso all’alto, squarcia tutti gli alti piani fino all’ultimo, più segreto, intimo ed inespugnabile terrazzo, quello biblicamente occupato dal profumo di bucato e da panni che sbattono al fresco vento asciugatore? È il sole che scricchiola, è il vento che riluce: mentre crolla il grande palazzo, vestigia antica di un’architettura desueta, mentre il suo grande cuore palpita – cuore di cemento! Non ne senti i fragorosi ultimi colpi battere battere battere? – nelle centrali stanze dai muri scrostati, un piccolo cuore di bimbo, dimenticato dal mondo di fuori, piano, palpita piano, palpita gl’ultimi colpi piano, palpita pochi delicati infantili colpi piano… Nel buio fragore dell’edificio nel sisma, contro i colpi del cuore di cemento che rimbombano forti, si ergono quei piccoli soffi di un cuoricino febbricitante: al fianco non c’è una Madonna che piange un sorriso, non c’è una mano che scende a salvarlo. Sussulta nel crollo il grande edificio, sussulta e crolla, i soffitti di legni pregiati, i grandi saloni dalle pareti di marmo, franano gli uni sugli altri, soffocano con un ultimo colpo quel fragoroso cuore dalle sistoli in calcestruzzo. E nel nuovo silenzio, nella calma della polvere inerte che cade e volteggia, tu tendi l’orecchio: dov’è quel flebile palpito d’un cuoricino? Risponde la polvere, rispondon macerie: è il silenzio. Chi è il responsabile, di chi l’alito che ha fatto crollare il fittizio castello di carte? Risponde la polvere, rispondon macerie: è, solo, silenzio.

Qual è il rumore della morte che arriva?

In me latum est scelus (liberos meos etiam contra!):

quomodo et ubi volo tibi captus dicere vere.

In domo mea eram, post pauco in vinculis eram;

cum natis in turri sum, lux non audet inire!

In me latum est scelus: narrabo nunc vere tibi

quomodo insaniam ferat furoremque fames,

dum manducando mortem sanguinem et auras

expecto silens, in turri ut si tumulo ego essem.

Epistola prima – 3 giorni dopo l’imprigionamento (4 luglio 1288).

Quanto durerà questa nostra prigionia, quanto ancora dovremo attendere prima di poter rivedere il sole, la sua luce calda e magnifica, la sua luce viva? Viva la luce del sole, vivi i suoi raggi, ma noi? Siam noi vivi, qui rinchiusi, nel silenzio attutito e mortifero della torre, appesi a questo filo di luce, meno di un raggio, che penetra con sommo sforzo, a fatica attraverso questo spiraglio? Tu forse, sei lontano, non sai, non sai cosa mi è successo… e se ben conosco Ruggieri, non lo saprai mai. Amico mio ti scrivo, è vero, ma dubito che queste mie lettere potranno mai raggiungerti. Ti scrivo più per disperazione, che per reale ed effettiva speranza che queste mie parole lascino mai queste quattro mura muffite, sospese sul vertiginoso baratro di Pisa e da essa divise, isolate dalla loro stessa altezza, da un muro che si chiama prigionia e che non risparmia dolore alcuno a chi vi è legato. In vinculis ti scrivo, e i vincules sono i mattoni alti di una torre, i metri da qui al suolo, la scala angusta e tenebrosa che abbiamo salito ormai tre giorni fa. Angusta e tenebrosa come la nostra vita adesso. Siamo in cinque. Io, naturalmente; e poi i miei due figli, Gaddo e Uguccione, e con loro i miei nipoti Lapo e Anselmuccio. Ti chiederai se Balduccio, sangue del mio sangue, è scampato alla prigionia. Ebbene no. In realtà egli è morto, prima che ci chiudessero qui… e forse è lì che comincia la mia storia. Già, mi continuo a dimenticare che tu non la conosci ancora la mia storia. Ebbene, sai che dopo la pace che io stesso ho trattato per conto di Pisa con Firenze, Lucca e Genova, tutte e tre le città nemiche sono rimaste contente dell’esito degli accordi, anzi, si sono dimostrate in un certo senso riconoscenti a Pisa. Ma i Pisani, i miei carissimi concittadini, un branco di ghibellini, hanno creduto subito che li avessi truffati, che mi fossi lasciato corrompere… e hanno tirato fuori ancora quella storia della battaglia della Meloria, quando non ho fatto in tempo a far ritirare dei vascelli e tutti i marinai a bordo sono morti… ma sì, avrò sbagliato! Ma non ero certo dalla parte dei nemici, non sono un traditore! Invece loro no, hanno cominciato a vociferare che io già allora ero contro Pisa e che non avrebbero mai dovuto lasciarmi diventare podestà e che avevo avvantaggiato gli avversari e che adesso ho lasciato Pisa sguarnita e indifesa. Mi accusano di tutto, anche dei prezzi che continuano a salire, a salire vertiginosamente. Sarà colpa mia? Non potevo fare altro con Genova! Lo si sapeva già che sarebbero saliti i prezzi, ma almeno la città è libera! Loro questo non lo capiscono e l’arcivescovo mette in giro un mucchio di voci su di me. Addossa a me tutte le colpe. Non avrei mai dovuto rifiutare la sua offerta di alleanza. Mi sa che se l’è presa… Ironia a parte (e ti assicuro che non ne sono molto propenso in queste condizioni), devi sapere che ho ucciso un nipote di Ruggieri. Non l’ho fatto apposta, è capitato. Durante una lite! Allora, sai lui, l’arcivescovo, che bello scherzo mi organizza? Che marcisca all’inferno, quel traditore: dopo l’assemblea in San Sebastiano, quando esco, mi fa trovare le strade invase di bande armate, bande ghibelline. Il mio Balduccio era con me, ha combattuto, si è difeso, è morto. Mi ha ucciso un figlio, quel cane. Era quasi mezzogiorno e ci attaccavano da tutte le parti. Allora, fuggendo, correndo, ci siamo trovati in piazza del Comune. Il Comune! L’abbiamo visto e abbiamo pensato: “salvezza!”. Siamo entrati e abbiamo sbarrato le porte. Quelle porte! Robuste, massicce… potrebbero sopravvivere a tutto. Eravamo chiusi dentro, al sicuro, ed eravamo intenzionati a non uscire per alcun motivo, a salvarci la vita. La gente in piazza urlava, qualcuno aveva le torce. Tutti gli ingressi erano presidiati, non c’era via d’uscita. Molti cominciarono a lanciare sassi contro il palazzo. Gli insulti… non li riporto neanche. Verso le quattro la gente cominciava già ad andarsene e la piazza a svuotarsi; ma le guardie presidiavano comunque ogni uscita. Col buio la gente tornò in piazza. Avevano le torce. Quasi tutti. Il grande spazio davanti al palazzo fu invaso da una mare guizzante di fuoco. Le fiamme si riflettevano, arancioni, sinistre, stanche, sui nostri volti, mentre dall’alto contemplavamo quell’immane schieramento di fuoco. Passò forse un’ora. Poi si fecero avanti. Accostavano le torce ai battenti delle porte, scagliavano dardi infuocati nelle finestre, colpendo i tappeti, i tendaggi, la mobilia e i soffitti. Il palazzo cominciò a fumare e a crepitare, come se fosse un ciocco di camino. Il calore aumentava e le travi attizzate cominciavano a cadere sbarrandoci la strada. Noi correvamo accecati da una parte all’altra, consci di essere ad un passo dalla fine, indecisi se questa, la fine, fosse migliore fra le fiamme o fra i ghibellini. Ma quando ormai i corridoi erano invasi dal fuoco, che lambiva le nostre guance con carezze degne della più passionale sgualdrina, puttana Morte, la scelta sembrò sciogliersi da sola col calore: e con uno sforzo, tra le tende ardenti, nel fumo nero e irrespirabile, nel rombo assordante del fuoco, raggiungemmo le porte ormai divorate e uscimmo. Uscimmo nella piazza grande. Sopra di noi c’erano le stelle, il cielo nero e milioni di stelle e un’aria frizzante e fredda, pura, finalmente. Dietro, il palazzo era un’unica palla rossa e gialla, rombante, avvolta nel suo stesso mefitico fumo, denso, che si spargeva a tratti in alto, in alto, forse proprio fino alle stelle. Per un poco tossimmo, guardammo il cielo e respirammo l’aria. Intorno a noi il fragore dell’incendio copriva ogni rumore, la profondità del cielo rassicurava, l’aria fresca rinvigoriva. Poi a poco a poco, cominciammo a percepire anche il resto di ciò che stava accadendo nella piazza. Non eravamo soli. La folla era indietreggiata, spaventata dal calore. Ma ci aspettava. Davanti a tutti, con i paramenti arcivescovili e con i più importanti capi ghibellini, i Gualandi, i Sismondi, i Lanfranchi, gli Orlandi, i Ripafratta, accompagnati dalle rispettive bande armate, stava Ruggieri. Ancora lui. Sempre lui, il mio nemico di una vita. L’incendio alle nostre spalle creava un gioco di ombre sul suo volto e io non riuscivo, in quella danza di luce e fiamme, a decifrarne l’espressione. Vedevo un grande spazio vuoto fra dove eravamo noi e dove stavano, fermi, loro. E in questo vuoto cosparso della luce del rogo, le nostre ombre si allungavano fino ai piedi dell’arcivescovo. La mia testa, l’ombra della mia testa, si trovava proprio pochi centimetri sotto i piedi dell’arcivescovo. Capisci allora, caro amico, che forse la morte tra le fiamme sarebbe stata migliore. Si avvicinarono armati, ci circondarono. Ruggieri mi guardava e non parlava. Sussurrò un ordine a uno e se ne andò. Ci condussero, scortati dalla folla, fino alla torre dei Gualandi, la Muda. Fu aperto il portone e fummo introdotti in una stanza buia e puzzolente di umidità. La porta si chiuse dietro di noi, tagliando fuori il rumoreggiare della folla, le grida, gli insulti. Allora qualcuno accese una torcia. Era Ruggieri. Mi guardai intorno: c’eravamo io, Gaddo, Uguccione, Lapo, Anselmuccio e Ruggieri. Gli altri compagni non erano stati fatti entrare. E nemmeno nessun’altro dei ghibellini era ammesso a quello spettacolo. L’arcivescovo cominciò a salire una scala a chiocciola, senza proferir parola. Dopo un attimo lo seguimmo. Ci ritrovammo in una stanzetta, questa stanzetta!, illuminata dalla torcia di Ruggieri. Egli ci guardò, sorrise; e se ne andò, chiudendo la porta a chiave e lasciandoci sprofondare nel buio. L’alba ci colse ancora svegli. Da allora sono trascorsi tre giorni. C’è uno spiraglio, da cui si intravede solo uno squarcio di cielo. La porta si apre solo per portarci del cibo, una volta al giorno. Ci lasciano pane acqua e qualche zuppetta. Razione doppia, per pranzo e cena. I nostri occhi si sono lentamente abituati al buio e guardare direttamente fuori dallo spiraglio ci duole come una coltellata. Dubito che ci lasceranno qui ancora molto. Ruggieri ha bisogno della mia esperienza per guidare la città. Non mi lascerà mai libero, ma mi farà tornare a casa, mi terrà sotto sorveglianza e mi userà per i suoi scopi, quando avrà bisogno. È questo che dico ai miei ragazzi, figli e nipoti, spaventati e innocenti, che non hanno altra colpa se non quella di essere miei parenti, che non hanno mai preso parte alla politica. Amico mio, il mondo è ingiusto, anzi, crudele. E io, forse, non potrò mai dirtelo.

Epistola seconda – 42 giorni dopo l’imprigionamento (12 agosto 1288).

Caro amico mio, che fare se non scriverti? Certo divertimenti non ce ne sono e Ruggieri non accenna a liberarci. I ragazzi sono mutevoli e un giorno sono in preda allo sconforto, convinti che marciremo qui dentro, mentre il giorno dopo si lasciano divorare dalla speranza più luminosa e piena di gioia, sicuri senz’ombra di dubbio che la libertà sarà un’amica che conosceremo presto. Io non so cosa dir loro, così per lo più sto zitto. Sono preda dei pentimenti e mi rammarico della mia stessa vita, che ora mi pare così inutile e mal spesa. Sono diventato l’uomo più potente di Pisa e me ne sto chiuso qui, probabilmente dimenticato da tutti. Se solo l’apertura da cui passa la luce fosse un poco più larga, non esiterei a spiccare il volo. Ma essa è strettissima, poco più di una feritoia, e qui dentro non ho nulla che possa aiutarmi nel mio intento di somministrarmi la morte. L’unico volto oltre al nostro che mi è concesso vedere, è quello del nostro carceriere, che quotidianamente ci consegna il cibo. È un vecchio che ne ha viste tante e non si stupisce di nulla. Ha l’ordine di non parlare con noi, ma ogni tanto di è lasciato scappare qualche parola. Purtroppo ho constatato che è impossibile corromperlo. Che dire? Aspettiamo fiduciosi (o speriamo di morire presto…)

Epistola terza – 81 giorni dopo l’imprigionamento (20 settembre 1288).

Gioisci, amico mio, perché le mie pene presto finiranno, io, i figli e i nipoti saremo a breve liberi e potrò venirti a trovare! Prepara il vino, che ne vorrò molto, dato che a stento ne ricordo il sapore! Prepara le carni prelibate, prepara tutto, che ho voglia di vivere e di vita, sì, ho voglia di vita! Questa torre puzza di morte, queste mura sono una tomba e un loculo da cui non vedo l’ora di uscire! Ti chiederai a che cosa è dovuta questa gaiezza, questa gioia, questa sicurezza! Ho corrotto, col poco che avevo, la guardia a ragguagliarmi sulla situazione della città e a consegnare un messaggio da parte mia: il vecchio mi ha detto che Ruggieri si è autoproclamato podestà e che si sente tanto sicuro da volersi arrischiare a liberarmi! Inoltre mi ha assicurato che consegnerà a un mio parente, uno Sforza, un messaggio che gli ho dato… è pertanto questione di tempo, la macchina è avviata e gli ingranaggi girano, girano e non si possono fermare. Ormai la cosa è fatta, poco tempo e tornerò a gustare le bellezze della vita. Dimenticheremo la tristezza, aborriremo la notte e il buio, festeggeremo la vita e gioiremo del sole e della luce, mangeremo fino a scoppiare, ci ubriacheremo di vino e d’amore, inebriati dal miele della vita, ebbri di piacere. Darò un banchetto, sì, e tu, amico mio, sarai il primo degli invitati, e poi i nostri amici di un tempo e i nuovi! Andremo a caccia e a puttane, ammazzeremo il primo ghibellino che incontreremo e, se occorrerà, fuggiremo lontano, nell’Impero, forse, dove ci accoglieranno come eroi! Proveremo il Paradiso e l’Inferno e ci accoglierà il più gioioso dei due, quale che sia, non mi importa! Vivremo! Vivrò! Sono vivo!

Epistola quarta – 106 giorni dopo l’imprigionamento (15 ottobre 1288).

Morte. Morte a me, amico mio. Che banchetto, che festa! Che libagioni e che fanciulle! Acqua e pane, pane ed acqua, delusione e grida. È passato più di un mese, un mese in cui il carceriere ha continuato ad assicurarmi, tutti giorni, che la prigionia stava per finire, che la libertà era vicina. Fandonie, frottole, bugie. Ecco di cosa mi sono cibato per un mese. Vecchio mentitore, possa tu passare l’eternità nella morsa dell’inferno, tra le fauci di Satana! Sono qui in un angolo a scrivere e i ragazzi piangono. Non parlo con loro da due giorni, da quando ci siamo accorti che era tutto falso, tutte vane speranze. Ruggieri morirai e marcirai all’inferno, cane schifoso, feccia della feccia, merda sotto i piedi del mondo, carota porporata, cornuto fornicatore bastardo minchione usurpatore! Ti sbatterei per terra e comincerei a darti calci dopo averti fatto male ma molto male mi chinerei e mentre chiedi pietà comincerei a romperti le dita falange per falange poi passerei alle gambe tutte le ossa poi ti taglierei i piedi poi ti spappolerei i tuoi fottuti gioielli poi ti romperei le costole ad una ad una a questo punto staresti già morendo ma non ti lascerei morire così in pace ricomincerei a darti calci ovunque con quanta forza ho fino a sfiancarmi fino ad essere soddisfatto. Non ti stupire, amico mio, della mia ira, non ti stupire. Io voglio uscire da questa prigione, voglio essere vivo, voglio mangiare, bere, dormire come si deve, voglio vedere il sole, voglio… essere libero!

Epistola quinta – 177 giorni dopo l’imprigionamento (25 dicembre 1288).

Buon Natale, amico mio! Buon Natale, dies nati Christi! Fa freddo, la notte, qui dentro, non v’è fuoco né calore. Non ci sarà, oggi, il pranzo di Natale, né la cena. Niente veglie, ieri sera, niente preghiere. Dio non si offenderà. Io, io potrei offendermi! Chiuso qui, in questa torre, come un abietto, come un cane! Dio dovrebbe ben intervenire, dovrebbe alleviare le sofferenze, non sono io certo Gesù Cristo! Buon Natale e che un fulmine cada a distruggere questa torre e a distruggere Ruggieri! Eccoli, i miei propositi per questo Santo giorno. Nessuna stella cometa c’è per me e per i miei, nessuno spiraglio di fede, né di speranza. E allora, gioiamo!, facciamo festa!, rallegriamoci! Brindiamo insieme al Signore Nostro che è nato per noi! Oggi la bontà è padrona, oggi si mangia! Oggi sì che siamo cristiani, oggi, oggi che son qui a morire di freddo, oggi che non posso scaldare i miei figli e i miei nipoti, che non posso assicurare loro un avvenire! Che giorno! Mi credi, amico mio, se ti dico che questo è un Natale indimenticabile? O forse è il più labile di tutti, quello meno fermo alla memoria, proprio perché trascorre esattamente come ogni altro giorno, con l’alba fredda che ci coglie congelati sul pavimento di nuda pietra, con la puzza delle feci e dell’urina, con il sole che si fa spazio in un angolo, con il regale pasto, la zuppa, l’acqua, il pane! Che giorno! Oggi che potremo scambiarci gli auguri, noi cinque, gli auguri di buon Natale! Infrante speranze, vane delusioni, vacuità incommensurabile: ecco i doni che ci scambieremo. Tu di sicuro siedi con la tua famiglia alla luce di un caldo fuoco, che guizza allegro nel focolare, mentre aspetti che un servitore ti annunci che il pranzo natalizio è pronto, è servito. Questa mattina sarai andato alla chiesa del villaggio o della città, ovunque ti trovi, avrai pregato con rinnovata fede, avrai forse speso due parole con questo Dio Ingiusto perché ci liberi, perché ponga un termine alle nostre sofferenze, che questo confine sia la libertà o la morte. Sto impazzendo. E con me anche i ragazzi. Il buio, la desolante ripetitività quotidiana, l’ira, il tedio mortale ci stanno logorando, in silenzio, mortalmente. L’unico diversivo, l’unica attività che ancora mi consola, è lo scriverti; anche se sono consapevole del fatto che tu mai leggerai queste parole che a me costano tanta fatica, l’ultima fatica di cui sono capace. In questo gelo mi dolgono le mani anche solo ad impugnare una penna, ad aprire il calamaio. Il supporto è agli sgoccioli e presto dovrò procurarmi nuovo inchiostro. I miei figli e i nipoti non capiscono perché mi ostini a scrivere; sono convinti che io sia impazzito del tutto. Ancora non si sono rassegnati completamente al pensiero che vivremo la nostra rimanente vita in quest’ombra oscura, ancora sperano di poter rivedere la luce. Come dar loro torto, come disilluderli? Non hanno già sofferto abbastanza? È meglio prepararli al peggio, soffocare in loro ogni speranza sotto cuscini spessi di pessimismo, o è meglio lasciarli liberi di sperare, lasciar loro un appiglio, un raggio salvifico che li visiti nei sonni inquieti e li conforti e li mantenga vivi? Proprio ieri Lapo mi ha chiesto quando, secondo me, ci avrebbero finalmente liberati. Ho scosso la testa e non gli ho risposto. Allora tutti e quattro si sono ritirati in un angolo e hanno cominciato a piangere. In quel momento, solo dall’altra parte della stanza (non credere: lo spazio è poco, ma a volte pare immenso) ho capito di avere il bisogno di scrivere ancora, di scriverti un’altra, un’ultima, forse, lettera. Potessi ora rispondere a Lapo e agli altri, ad Anselmuccio, a Gaddo, a Uguccione, risponderei “Mai!”. “Mai!”, perché è quello che penso. “Mai!” perché non voglio che si facciano eccessive illusioni, perché, ormai, è inutile farsene. “Mai!” perché spero di morire presto. Ma il silenzio è migliore per me di ogni pianto o grido; non sono io persona che si compiaccia a parlare, specialmente in situazioni simili. Per loro, io, non posso fare più nulla. Anzi, mi par di aver fatto abbastanza. E tanto basti. Auguri.

Epistola sesta – 184 giorni dopo l’imprigionamento (1 gennaio 1289).

Un nuovo anno si apre sul baratro di Pisa. Tu non leggi le mie lettere, non mi rispondi. Ho bisogno che tu mi risponda, ho bisogno che tu mi conforti. Sono stanco. Stanco di vivere o, forse, stanco di non vivere in questa torre maledetta. Voglio un passatempo, uno qualunque. Voglio un diversivo, o diventerò pazzo. Voglio che tu, senza aver mai ricevuto una riga da me, mi risponda, che tu rompa questo silenzio spettrale che incombe cupo in questi metri quadri, in questa stanza priva della luce necessaria a garantire la vita, a garantire un minimo di umanità. Ieri ho provato a parlare, dopo alcuni giorni di silenzio. La mia voce arrochita ha spaventato i ragazzi. Gracchiavo nel silenzio della torre; gracchiavo piano maledizioni. Mi sono accorto che non riesco più a figurarmi il volto di Ruggieri. È labile, è un incubo che mi visita di notte, tutte le notti, il suo volto nella luce dell’incendio, sfigurato dalle ombre e dalle fiamme. La sua espressione indecifrabile. Sono tratti indefiniti, non precisi, non riconoscibili, ma spaventosi. Non riesco a immaginare esattamente, con precisione, la sua faccia, ma la sogno tutte le notti. Piove da parecchi giorni e l’umidità è insopportabile: stiamo tutti male e starnutiamo in continuazione. Se uno di noi prende la febbre, siamo tutti morti. Ad ogni starnuto ci guardiamo con sospetto, come se l’altro fosse colpevole dell’infezione imminente, come se apposta si facesse untore del morbo, intenzionato a cospargerne i semi a danno nostro. L’umidità aumenta il freddo, o almeno la sua percezione, e la zuppa che ci viene portata, anche se tiepida, è il ristoro delle nostre membra congelate, la vera panacea salvifica. Se solo tu mi rispondessi, se solo mi spiegassi perché all’alba i passerotti cantano felici fra le travi di questa torre di morte e sofferenza, se solo mi portassi il conforto di una parola amica o di un veleno potente! Ho imparato a riconoscere e ad apprezzare lo scalpiccio dei passi del nostro carceriere sulle scale, quando ci porta il cibo: è un rumore grasso, con una grande eco, inquietante. Ogni passo riverbera nella tromba delle scale e bussa alla nostra porta; ogni passo ci avvicina il cibo. Ad ogni passo, mi piace pensare, si avvicina la morte. Che suono ha la morte che arriva? È essa silenziosa? O forse è preannunciata da un grande boato, un’esplosione che fa pulsare il sangue nelle orecchie? Ha i passi felpati, la morte, o ha suole di duro legno, che ticchettano distintamente, quasi a scandire i tuoi ultimi secondi?

Epistola settima – 229 giorni dopo l’imprigionamento (15 febbraio 1289).

Vorrei morire presto, amico mio, e vorrei che morissi anche tu, per ritrovarci a scherzare nell’eternità. Vorrei che morisse anche Ruggieri, che marcisca all’inferno, ah, se lo perseguiterò! Non avrà pace da me! Ormai nessuno di noi quasi parla più. Io sto sempre seduto in un angolo, i ragazzi, dall’altra parte della stanza, si guardano fissi negli occhi e ogni tanto scoppiano a piangere. Morte, sorella!, prendimi presto, cullami, presto!, prima che sia troppo tardi!

Epistola ottava – 234 giorni dopo l’imprigionamento (20 febbraio 1289)

Amico mio, credimi se ti dico che la situazione, qui, è insostenibile. Il carceriere non si trattiene più a scambiare due parole, spaventato dall’atmosfera cupa e mortifera di questa stanza. Il silenzio è più grande. I suoi passi rimbombano di più quando sale le scale. Qual è il suono della morte che arriva? Qual è? Presto!, sorella morte, fa sentire i tuoi passi!

Epistola nona – 242 giorni dopo l’incarceramento (28 febbraio 1289)

Caro amico mio, sento la morte vicina: mi vedo continuamente il volto di Ruggieri, senza forma, sfigurato; ma so che è il suo. Hai visto i ragazzi come stanno male? Con che occhi imploranti mi guardano? Ma io che posso fare? Loro vogliono correre ed io voglio morire. Ricordi quando, andando a caccia, mi salvasti la vita? Facesti male: guarda a cosa mi hai condannato! Ma tu non sapevi, e nemmeno ora sai. Tu non sai. Ricordi quando eravamo ragazzi e Pisa era bella, quando non avevamo ancora sentito parlare di Papa e di Imperatore, quando tu vivevi qui e ci divertivamo, quando eravamo vivi? Dove sarai? E dove son io? Ragazzi! Ragazzi! Fatevi coraggio: siamo salvi! Il mio amico ci salverà! Ragazzi, non vi preoccupate! Ragazzi! Animo, su: il peggio è passato: presto verrà lei, verrà e non soffrirete più, non soffriremo più. Lo so che verrà. Verrà. Verrà. Verrà. Verrà ed avrà i passi… i passi felpati? o forse pesanti? Verrà sarà dolce, ragazzi miei! Abbiate fiducia. Verrà. Io l’attendo!

Epistola decima – 252 giorni dopo l’incarceramento (10 marzo 1289)

Eccola! L’ho sentita, ha bussato! Stamane! Dormivamo tutti e ognuno sognava: si agitavano nel sonno, i miei ragazzi. Tutti hanno sognato, poco prima dell’alba e io pure: c’era Ruggieri, ma il suo volto era definito, non torbido! C’era Ruggeri a caccia con altri, famiglie nobili, famiglie ghibelline! Correvano tutti dietro ad un lupo, le cagne sbraitanti, loro sui cavalli, dietro ad un lupo coi suoi figlioletti! Ha bussato, stamane: ora so! Ora so che rumore ha la morte che viene! Ha il rumore dei chiodi piantati nel legno, il rumore echeggiante delle assi che sbarrano una porta! Così tutto è compiuto! Si sono decisi: la chiave, l’hanno buttata; siamo chiusi qui dentro, nessuno ci porterà da mangiare! La morte ha bussato: ci siamo svegliati. Ci siamo guardati. Nei loro occhi c’era la delusione, terrore, impotenza. Io non ho parlato: come al solito nel mio angolino sto seduto, il mento contro alle ginocchia; loro piangono con gli occhi rossi, piangono e mi guardano, lo so che mi guardano, ma io guardo in terra… Che volete da me? Allora? Cosa pensate che possa fare, io, un fallito, un inetto? Che potere pensate che abbia? Cosa volete? Parole di consolazione? State per morire, cretini, aprite gli occhi: non c’è spazio per la consolazione!

11 – secondo giorno

ho fame, abbiamo fame, portaci da mangiare da bere ho sete abbiamo sete, portaci da bere, voglio morire ma SUBITO! non voglio aspettare voglio morire morire morire! non la sentite ragazzi la musica, sembrano bicchieri rotti o angeli in coro, mi ricorda una mattina d’inverno che avevo dieci anni e c’era la maria che cantava in cucina cantava in cucina la maria la sentite maria! Ho fame portami da mangiare porta dell’acqua, maria non te lo dimenticare maria? maria? maria?

12 – terzo giorno

basta piangere ragazzi, conservate le forze perché mi guardate? perché mi fissate? mi accusate lo so che è colpa mia se siete qui ma anche di ruggieri quello stronzo se finisco all’inferno quello ci viene con me! perché mi guardate non posso fare niente perché perché mi guardate perché avete sentito la morte che ha bussato? solo che io pensavo che fosse veloce, che la morte fosse sempre di fretta, invece lei fretta non ne ha, attende, lei, attende… io no! io non voglio più aspettare morte! voglio morire? mi strappo i capelli. mi mangio le mani, ma no! cosa avete capito, non voglio mangiarmi le mani perché ho fame non avete capito niente voglio morire, non voglio mangiarvi perché ho fame, perché sono vostro padre, voglio morire, voglio che quella porta si apra e ci sia dietro la zuppa e il pane e l’acqua giuro che non facevano così schifo, giuro che mi lamentavo per finta, giuro che li mangio, adesso se me li portate, no, padre, no, a letto senza cena no! vi prego ho fame, senza cena no! portatemi un po’ d’acqua che ho fame, un po’ di pane, che ho sete, portatemi la morte, son stanco, son stanco, son stanco

13 – quarto giorno

quasi non ci vedo più sono cieco! sono cieco! concentro quel poco di vista su questa pagina bianca Gaddo Gaddo perché non ti aiuto?, figlio mio, non posso aiutarti e poi ora, ora sei morto, Gaddo, Gaddo, io non ti aiuto, mai ti ho aiutato e tu ti sei accasciato ai miei piedi secco e smagrito, gaddo, come sei magro, e anche tu uguccione, uguccione sveglia! sveglia! rispondi uguccione, pallido, magro, perché non rispondi? io non vi aiuto, gaddo, io non vi aiuto, non parlo, perché cercate il mio sguardo, gaddo, gaddo, uguccione, io, si fa sera anselmuccio, cadi?, anselmuccio, sentisti tu la voce della maria, che canta, che canta, che canta? gaddo anselmuccio sentisti la voce? la morte, sentisti? e lapo, lapo dov’è? lo vedi, tu, lapo, dov’è? è per terra accanto al fratello e ai cugini, è per terra sei, lapo?, sei morto, lapo, sei morto?

14 – quinto

non vedo. son morti. sento i corpi sotto i piedi. son morto? sento che canta, è lei!, è maria!

Sic passus, sic excruciatus, sic vexatus eram;

post dies ex turri sex nostri corpi lati erunt.

Erit in aevo qui nostros casus narrare sciet?