Decima Musa

A me, a me pare uguale
agli dei, uguale o addirittura,
si fas est, mi pare superiore,
più grande degli dei immortali
mi pare
colui
che accanto a te, al tuo
corpo vicino, così a te
vicino,
ti sente e ti vede
e vedendoti ti sente
ridere dolcemente
parlare amabilmente.

Mentre io ti guardo
e ti ascolto
– ma tu non lo sai –
vedo lui che ti sente
e ti vede
– così da vicino! –
e mi sembra superare
gli dei:
vede e sente te che ridi
dolcemente
e parli
amabilmente;

questo davvero mi sconvolge
il cuore nel petto
e la lingua mi si
spezza, sotto la pelle
rapido corre un fuoco
sottile, un nero sugli occhi
mi scende, il sangue
martella tonfi nei lobi,
gocce gelate precipitano
lungo il mio corpo
e tutto tremendamente
mi prende un tremore
e perdo il colore
fino ad essere
verde
e sento
sento
che
svengo
e sento,
sento
che
muoio.

Tutto bisogna sopportare.
Ripeto nel cervello che
tutto bisogna sopportare.
Perché…

Amabile Saffo, dolce ridente
coronata di viole,
tu decima Musa,
perché?

Tu lo sapevi, avevi trovato
un perché.

Tu lo sapevi, soffrivi,
sopportavi,
ma sapevi il perché.

Epei.

Il furto del tempo lo ha cancellato:
io non lo so più perché sopportare
tutto questo si deve. Ma dimmelo

dimmelo Saffo,
dimmelo.

Io non capisco,
risposta
non trovo.

Per quanto io cerchi

Non trovo.

Di rosso e di blu s'è tinto ormai il cielo...

Di rosso e di blu s’è tinto ormai il cielo
e gonfie lontano passan le nubi.
Combatton ritagli di alberi neri,
con quella luce accecante, morente.

Scende il sole, scende il freddo: è sera.
S’alza una brezza calda e inaspettata:
è sera. Odore di umida terra e foglie.
Muta la sera padana ci tiene.

La notte la bracca dal lato oscuro:
impaziente vuole compiere il suo
destino di bui sospiri o amore.

Il giorno si aggrappa all’ultimo raggio:
con dignità regale cede il posto,
antico conflitto di luce e ombra.

Goccia a goccia

Dal fondo ghiacciato del denso mare,
dall’algido azzurro dei flutti, emergo
mi specchio nelle onde, mi scruto, vedo
un essere patetico su un rosso
vulcano.

Se fossi sul ciglio,
sul ciglio bagnato
di lacrime,
di un grande vulcano,
se fossi in vetta al cielo
e all’universo,
se,
se fossi,
se fossi sicuro del mondo,
se fossi riamato,
se avessi
avessi
avessi almeno
almeno una
una certezza…
se,
se tutto questo,
se fossi, se
fossi…

io allora sarei,
sarei,
sarei non dico,
non dico,
felice,
no non felice, ma,
ma almeno,
almeno,
sereno.

Sono gorghi di fuoco, avete notato
che bello il rosso del
sangue, che bello quel rosso
che non ne esiste un altro uguale
è il sangue rosso che è bello perché è una goccia
un rosso, rosso rubino, una gemma, una goccia, una stilla, una goccia,
la goccia, la stilla, la goccia che esce, che esce,
solo una alla volta, una
una alla volta, la goccia

plin

la goccia che esce che tintinna sul pavimento è rossa, passione
passione dei sensi
patior, ah pazienza, pazienza che
si è esaurita, che bello
che bello il colore
del sangue

plin

è un rosso senza uguali, è un vermiglio
che lampeggia, nessuna rosa, nessun
geranio, nessun rubino,
nessun inchiostro può
imitare quello splendore, il
sangue, il dolore, la morte.

plin

Tramonta già, è di sangue anche il cielo,
tramonta e mi abbandona la luce,
mi lascia a queste tenebre amiche,
mi lascia a queste tenebre ignote:

plin

a nulla vale una finta lampadina.
È l’unica luce nel buio e splende con rosso fragore:
l’unico lampo nel buio,
è sangue.

plin

Sfera di cristallo

Un vasto monte, una grande pianura,
l’acqua increspata
da un soffio.

Un soffio nell’aria, un soffio al cuore:
è l’aria nei polmoni
che trafigge.

Pugnali nel corpo: ma veri o solo
immaginati, sogni
di un sogno?

Un sogno, incubo che questa notte
mi ha visitato: ero morto
e danzavo.

Danzano i soliti visi sul pullman
ogni mattina: è un ragazzo
col volto indurito:

le cuffie alle orecchie, lo sguardo
lontano ed il volto
indurito.

Ha gli occhi di un cervo ed il cuore
indurito: la pietra nel petto
che tonfa.

Ma lontano è tutto, lontano da me:
son laghi e montagne,
la pace dei sensi.

Silenzio io cerco, silenzio e quiete:
tappare col nulla il vuoto
del mondo:

è l’ignoranza, è la fobia, stupidità,
ma resta immutato intorno
a me il deserto.

Solo conforto mi danno questi alberi,
lenti, alberi lenti, alberi
verdi, alberi

mossi dal lieve fiato, sospiro, sospiro,
agognata pace, pace e sospiro,
un soffio

che agita un lago profondo, il mondo,
un soffio di vita ristora
una bolla di vuoto.

Lux moritura vivens

Sull’immota acqua lacustre
tanti trucioli di luce,
splendono.

Vibrano.
Anch’essi immoti, ma vivi,
tremanti; prima del buio.

Attesa

Buio, scuro.

È notte ed è buio.
È notte ed è scuro.

Sono sole le luci
che vedi laggiù in fondo:

sole, solitarie,
brillano nel denso

liquido solido
nerastro che è il cielo.

Stanotte succede,
lo sento qualcosa

distrano, distrano.

Qualcosa succede
stanotte distrano.

Una sirena:
che pianto nel buio!

Succede lo sento:
la senti una sirena?

Ulula-ulula
Buio
Sirena
Morto?
Successo?
Che cosa?
Che cosa?
Che cosa?

Buio, scuro.

Riflesso

Ogni mattina, grigio, arancione, blu. Ogni mattina il grigio di un cielo stanco, mezzo addormentato, l’arancione informe di un autobus che emerge da un sogno, il blu verticale dei pali: “reggersi agli apposti sostegni!”, “salire solo con biglietto di viaggio valido e convalidato”. Allitterazione bimembre a contatto e trama fonica nel fonema “v”: che noia. Ogni mattina quel solitario dondolio, che culla d’infante!, quella luce sporca che filtra dallo sporco setaccio di un finestrino, quel paesaggio in bianco e nero, smorta fotocopia di un mondo vivo. Potresti guardar fuori e vedere macchine o navicelle di UFO, potresti vedere alberi o bambini impiccati: tutto passa via veloce dietro quei vetri immondi. Sempre quel clima caldo-umido da foresta equatoriale, sempre quei bocchettoni ardenti di flussi ed esalazioni calde, sempre quell’aria spessa, quasi cento nasi che respirano, i finestrini chiusi, poco ossigeno. Ed ogni mattina, in quel sacro pellegrinaggio immerso in uno strano dormiveglia, in quell’attesa (di cosa? della fermata? di un risveglio?), vedo sull’autobus un ragazzo. Strano. Avrà, non so, la mia stessa età. Mi sembra di non conoscerlo e mi pare di conoscerlo. Chi è? Non lo so: che importa? Eppure è lì, tutte le mattine, lo sguardo perso. Le cuffie nelle orecchie, una musica in testa, un vuoto intorno. C’è una luce balbettante, sugli autobus mattutini; c’è un brusio costante, ma non quel gridare forte, quel baccano che si trova nel primo pomeriggio. È un baccano sì, ma ovattato. Attutito. È un baccano addormentato, uno di quelli che stanno ancora avvolti nelle coperte colorate che sfidano con sorrisi di tessuto il gelo del mattino. Io sogno e non saprei dire se sul bus ci sono stato un’ora o un minuto. E vedo quell’essere immobile dalla testa incorniciata dalle cuffie di un MP3, un mostro ancestrale; che triste: una faccia come tutte che dondola alle curve e sobbalza alle buche, una faccia e niente di più. Una distanza enorme, pensieri inafferrabili e ignoti, pensieri che danzano sulla musica che ascolta, quale che sia, non so. Che triste: mai una parola, sempre una concentrazione totale in sé, una vista che non vede, una presenza che non c’è. Corrono gli autobus di fretta, corriamo noi; ma lui, ogni mattina, sarà lì, perso, muto, a ricordare al mondo un’essenza di lentezza senza fine, di parole inutili che attendono il silenzio, di musica a bocca chiusa, melodie perse tra il fragore delle mille gocce di una doccia, una cascata. Sarà l’emblema di un niente vecchio come il mondo, l’emblema di un’assenza, simbolo del fittizio, dell’ingannevole, del falso quotidiano. Portatore di una sconosciuta calma, un’ignota ricchezza, un mistero: cosa pensa, nei suoi infiniti viaggi in pullman? Cosa sente da quegli auricolari? Cosa cela la sua imperturbabile stabilità? Chi è?

Molte mattine mi hanno visto assorto in questi pensieri, in queste domande, invano. Molti autobus sono passati, mi hanno trasportato, e con me hanno trasportato anche la mia curiosità, il suo mistero che non riuscirò a comprendere. Molti finestrini appannati sono stati trafitti dal mio sguardo svogliato. Infine tutto è stato chiaro. Ho riconosciuto quella persona. L’ho riconosciuta, ma mi chiedo ancora chi è. L’ho riconosciuta guardando fuori, guardando quel riflesso nel vetro: e il vetro, il riflesso nel vetro, mi guardava a sua volta, svogliato come me, con le cuffie nelle orecchie, anche lui!, con un’aria persa in un tepore di dormiveglia, con chissà che pensieri in testa. Niente più che un riflesso. Io sono lui, lui è me. Niente più che un riflesso in un vetro appannato. Ma chi è?

Tears

Il foglio bianco inerme guardo:
voglio scrivere,
non so che cosa.

Da tanto ormai io non scrivevo:
la stanca mente
si rifiutava.

Bianco foglio ed inerme io:
o foglio, foglio
figlio d’un pianto.

Pianto umido, ancor bagnato,
diluvio ed onda
ombra e singulto.

Teodicea

Era il falco ed era
la montagna?
Erano, forse, lo squalo e
il grande abisso del
mare?

O, forse, non erano altro che topi
danzanti attorno a quel poco formaggio?
Altro non eran se non degli insetti
che conoscono soltanto un tramonto?

Dio dei topi, Dio
del formaggio!
Immane Divino
che ronza speranza alle
mosche!

Che grande, tu sei!
Che onnipotente!

Ebbene una danza stonata
un canto buio
tu puoi dirigere
senza pietà:
danza di topi ed insetti.

Non credo in
te:
sei tu che hai detto
che sono sbagliato.

Tu,
dio bestia,
razzista.

Spes ultima dea

Io:

Amica mia, Spes,
perché mi abbandoni?
Forse che, amica,
Spes, forse che
ti tradii?
Perché, Spes,
amica cara,
amica senza cui
la vita!
l’affanno!
si fanno
insopportabili!
perché?

I miei occhi ai suoi intrecciai, gli occhi e il cuore,
la salda corda tu eri, amica mia,
mia Speranza: ma il nodo tuo sciogliesti!

Amore mi negasti: recidiva,
arida! sterile! ingannatrice!

Godi forse tu nel scioglierti proprio
quando più forte ormai a me sembravi?

Spes:

Accusatore ingiusto:
non fosti tu a crearmi e darmi
vita?

Dovrei pentirmi io delle illusioni
del tuo stesso cieco animo dolente?
Non conoscevi già il risultato
quando ti affidasti a me, tu, ottuso?
Non sapevi, Cassandra di stesso,
che l’amor tuo è un seme sulla roccia?

Io:

Sapevo, crudele!,
sapevo eppur lo volli!

Ma di te ho bisogno, amica Spes,
perché ostile mi è Amore!
Non ordino, né chiedo: io ti prego!

Fingor

Nella luce finta della lampadina,
nell’estraneo calore di casa
rimpiango quel pungente freddo
che so essere, gelido, là fuori.

Umide ombre del bosco percorso
da corse di vento, da Aquilo freddo,
dell’arïa nel tremito frizzante
libertà alle nari mi portate!
Libertà, nel vento vento, volare
sopra, dei bruni alberi, alle cime
seguendo il latteo lunar sentiero
seguendo il ritmo delle mie ali nere…
le stelle ardenti vedo e il nero cielo
l’oscuro frusciare di foglie indistinte,
Settentrione mi invia il suo vento freddo
la mente mi rapisce, su di esso
volo via da qui, da tutta questa
finta luce, finto calore, finto
me.

Ma no! No! Non mi raggiunge
il fresco alitare umido del bosco!
In casa sono, al chiuso!
Fuori mi attendono
gli alberi fantastici
dai tronchi pieni di odorosa muffa,
i sassi verdi conficcati al suolo
morbidi di muschio.
Io non la sento la boreale brezza
che fredda i sensi obbliga al risveglio:
io non la sento,
muta spoglia, le braccia
incrociate al petto,
la bocca in un ghigno ultimo incrinata,
sul petto un rosso fiore trema
e cade,
muta spoglia, non sente
la brezza, un palpitare
rosso, trema
e cade.

Mistero

Ecco un uomo fortunato
e sereno.
Felice?

Ecco un uomo fortunato
e sereno:
ma cosa

è quella?

Come su foglia pallida del sole
dell’alba nuova e rosata, una lacrima
goccia dell’umida terra che secca

spunta sulla rosea guancia abbronzata
piccolo lucente diamante.

Cos’è?

Io lo so: è
il rimpianto del poco
coraggio
di dire:

“C’è di me una cosa
che non sai…”