Riflesso

Ogni mattina, grigio, arancione, blu. Ogni mattina il grigio di un cielo stanco, mezzo addormentato, l’arancione informe di un autobus che emerge da un sogno, il blu verticale dei pali: “reggersi agli apposti sostegni!”, “salire solo con biglietto di viaggio valido e convalidato”. Allitterazione bimembre a contatto e trama fonica nel fonema “v”: che noia. Ogni mattina quel solitario dondolio, che culla d’infante!, quella luce sporca che filtra dallo sporco setaccio di un finestrino, quel paesaggio in bianco e nero, smorta fotocopia di un mondo vivo. Potresti guardar fuori e vedere macchine o navicelle di UFO, potresti vedere alberi o bambini impiccati: tutto passa via veloce dietro quei vetri immondi. Sempre quel clima caldo-umido da foresta equatoriale, sempre quei bocchettoni ardenti di flussi ed esalazioni calde, sempre quell’aria spessa, quasi cento nasi che respirano, i finestrini chiusi, poco ossigeno. Ed ogni mattina, in quel sacro pellegrinaggio immerso in uno strano dormiveglia, in quell’attesa (di cosa? della fermata? di un risveglio?), vedo sull’autobus un ragazzo. Strano. Avrà, non so, la mia stessa età. Mi sembra di non conoscerlo e mi pare di conoscerlo. Chi è? Non lo so: che importa? Eppure è lì, tutte le mattine, lo sguardo perso. Le cuffie nelle orecchie, una musica in testa, un vuoto intorno. C’è una luce balbettante, sugli autobus mattutini; c’è un brusio costante, ma non quel gridare forte, quel baccano che si trova nel primo pomeriggio. È un baccano sì, ma ovattato. Attutito. È un baccano addormentato, uno di quelli che stanno ancora avvolti nelle coperte colorate che sfidano con sorrisi di tessuto il gelo del mattino. Io sogno e non saprei dire se sul bus ci sono stato un’ora o un minuto. E vedo quell’essere immobile dalla testa incorniciata dalle cuffie di un MP3, un mostro ancestrale; che triste: una faccia come tutte che dondola alle curve e sobbalza alle buche, una faccia e niente di più. Una distanza enorme, pensieri inafferrabili e ignoti, pensieri che danzano sulla musica che ascolta, quale che sia, non so. Che triste: mai una parola, sempre una concentrazione totale in sé, una vista che non vede, una presenza che non c’è. Corrono gli autobus di fretta, corriamo noi; ma lui, ogni mattina, sarà lì, perso, muto, a ricordare al mondo un’essenza di lentezza senza fine, di parole inutili che attendono il silenzio, di musica a bocca chiusa, melodie perse tra il fragore delle mille gocce di una doccia, una cascata. Sarà l’emblema di un niente vecchio come il mondo, l’emblema di un’assenza, simbolo del fittizio, dell’ingannevole, del falso quotidiano. Portatore di una sconosciuta calma, un’ignota ricchezza, un mistero: cosa pensa, nei suoi infiniti viaggi in pullman? Cosa sente da quegli auricolari? Cosa cela la sua imperturbabile stabilità? Chi è?

Molte mattine mi hanno visto assorto in questi pensieri, in queste domande, invano. Molti autobus sono passati, mi hanno trasportato, e con me hanno trasportato anche la mia curiosità, il suo mistero che non riuscirò a comprendere. Molti finestrini appannati sono stati trafitti dal mio sguardo svogliato. Infine tutto è stato chiaro. Ho riconosciuto quella persona. L’ho riconosciuta, ma mi chiedo ancora chi è. L’ho riconosciuta guardando fuori, guardando quel riflesso nel vetro: e il vetro, il riflesso nel vetro, mi guardava a sua volta, svogliato come me, con le cuffie nelle orecchie, anche lui!, con un’aria persa in un tepore di dormiveglia, con chissà che pensieri in testa. Niente più che un riflesso. Io sono lui, lui è me. Niente più che un riflesso in un vetro appannato. Ma chi è?

Nessun commento: