Tibi. Lege et responde. (Chi?)

Per te. Raccomandata urgente ma neanche poi tanto.

Mi piace pensare che tu stia solo aspettando. Mi guardi da lontano, mi studi, mi esamini. Mi pensi, mi sospiri, in un timoroso e tentennante deliquio. Aspetti di essere maturo, e pronto, e sicuro di te; aspetti il momento giusto per farti avanti, attendi il chairòs, il tempo migliore, l’attimo in cui, finalmente, infine, sentirai di aver raggiunto la stabilità interiore, di aver sintetizzato nella tua mente l’autoaccettazione, di averne fatto un monumento indelebile e solido. Insomma aspetti. Finché tutto non sarà pronto, e perfetto, e dolcissimo, fino ad allora tu, appassionato cuoco che cura teneramente la propria fragrante torta, mentre essa, preparata e lasciata riposare – senza fretta! – cuoce e si gonfia e prende forma nel caldo protetto del forno, tu non agirai. Mi piace pensare che questa attesa che crei intorno a te è un pretesto, grazie al quale stai imparando a conoscermi bene, meglio, perfettamente. Così, quando arriverà il momento, le esitazioni, i timori, le paure svaniranno in una nuvola di primavera, bianca e scintillante, ancora fresca, ma sbarazzina nel suo giocare a nascondino con un sole nuovamente caldo, e luminoso, e bellissimo. Ogni remora si dissolverà, ogni indugio sarà un semplice motivo di riso: e, ormai perfetto conoscitore di me, tu muoverai uno sguardo in mia direzione, e poi magari un passo, e diminuirà, diminuirà la distanza fra noi, e due solitudini si incontreranno in un abbraccio. Insieme. Mi piace pensare che sotto al mare calmo e apparentemente immobile, le correnti stiano preparando questa sinfonia, le onde approntino il magico sciabordare che ci cullerà in un duplice sonno, incantati spettatori della tenebra che porta il mare sulle spiagge. Allora mi compiaccio, e mi consolo: finché attenderai tu, attenderò anch’io. E mi crogiolo in questa speranza, che parte già dal presupposto magnifico, indimenticabile, grandissimo, che tu esista. Ma mi piace pensare che tu stia solo aspettando. Non avere fretta: quando vorrai, lo sai, io sono qui.

Matteo

PS: Lo sai? Mi piace pensare che io stia solo aspettando. Ti guardo da lontano, ti contemplo, ti conosco. Ti penso, ti sospiro, in un timido e trepidante anelito. Aspetto di essere maturo, e pronto, e sicuro di me stesso; aspetto il momento giusto per farmi avanti, attendo il chairòs, il tempo migliore, l’attimo in cui, finalmente, infine, sentirò di aver raggiunto la stabilità interiore, di aver sintetizzato nella mia mente l’autoaccettazione, di averne fatto un monumento indiscutibile, quasi un motivo d’orgoglio. Insomma aspetto. Finché tutto non sarà pronto, e perfetto, e dolcissimo, fino ad allora io, appassionato cuoco che cura teneramente la propria fragrante torta, mentre essa, preparata e lasciata riposare – senza fretta! ma con che angoscia! – cuoce e si gonfia e prende forma nel caldo protetto del forno, io non agirò. Mi piace pensare che questa attesa che creo intorno a me sia un pretesto, grazie al quale sto imparando a conoscerti bene, meglio, perfettamente. Così, quando arriverà il momento, le esitazioni, i timori, le paure svaniranno in una nuvola di primavera, bianca e scintillante, ancora fresca, ma sbarazzina nel suo giocare a nascondino con un sole nuovamente caldo, e luminoso, e bellissimo. Ogni remora si dissolverà, ogni indugio sarà un semplice motivo di riso: e, ormai perfetto conoscitore di me (o te? io mi confondo!), io muoverò uno sguardo in tua direzione, e poi magari un passo, e diminuirà, diminuirà la distanza fra noi, e due solitudini si incontreranno in un abbraccio. Insieme. Mi piace pensare che sotto alla neve bianca, silenziosa e apparentemente immutabile, i fiori stiano preparandosi a nuovi profumi, nascosto si stia apprestando il magico calore che ci scalderà in un duplice sonno, incantati amanti di una quotidiana gioia rinnovata. Allora mi compiaccio, e mi consolo: finché attenderò io, attenderai anche tu? Ma mi piace pensare che io stia solo aspettando. Non ho fretta: quando vorrò, lo so, tu sarai qui. Tu.

(Chi?)

Libera mens


Rosmarino.
Fresca e limpida
rugiada di mare.

Dolcissimo sospiro

Dolcissimo sospiro,
lo dedico a me stesso,
sospiratore impago
e canto ormai dimesso.

Dolcissimo sospiro:
non trovo a chi inviarti
e inerme sono e stanco
del peso di portarti.

E allora dico a me:
del male il buio è l’ombra
dell’atra solitudine il diletto:
la mente sgombra e dormi e vai a letto.

Recisi fiori di tranquillità


Spirale elicoidale
di scale

c’è chi scende e c’è
chi sale.

Chi piange al buio
non vede le proprie
lacrime.

A chi piange al sole
le lacrime evaporano
da sole.

La torta nel forno
profuma la casa
come un mazzo
di recisi fiori
di tranquillità.

Sfornata la torta
la gioia freme e bussa
alle narici.

Oggi a scuola...

Solfeggio la nota
più lunga del mondo:
e scoppio.

Mi perdo dunque
in una pausa
che non so quanto duri.

In memoriam. Mihi.


Ed ecco un petalo chiaro e leggero,
ed ecco un petalo turgido e rorido
si stacca dalla corolla e volteggia,
scende in spirali eleganti e aggraziate,
morto, sì, ma gonfio ancora di vita
si posa leggero accanto allo stelo
che ancora sorregge il suo perso fiore,
che ancora, antico virgulto, distrugge
per uscirne, forte e verde, la terra.

Negare, negare, negare...

Un’alba di luce che tutti vedono
a me solo mostra l’oscuro amore
di una speranza affogata.

Pensavo alla scuola, ai test e ad Orazio
mentre già il tempo fuggiva invidioso
verso l’ignoto universo.

Apri il libro
pensa a te stesso
guarda la vita
pensa a te stesso
chiudi il libro
vivi la vita
vivi la vita
a partire da adesso.

Ma la mia mente impossibile nega
la vita oltre i libri, l’amore oltre
la mia illudente poesia.

E vabbè, capita


Io ogni sera punto la sveglia. Mica fuffa. Uno dice ‘puntare la sveglia’. Sai che emozione. Invece è lì che ti crolla il cosmos. Che poi ormai fanno i vetri con dentro una resina collosa, che anche se tutto va in mille pezzi, questi mille pezzi restano belli attaccati lì, non ti cadono addosso. Ma il cosmos di sicurezza, che se ti si rompe non ti crolla addosso, non l’hanno ancora inventato. O ti droghi o ti fai di psicofarmaci. Ma allora tanto vale prendersi un bel cosmos in frantumi in testa… Mica sono sull’orlo del cornicione, no. Anzi stasera sono molto gaio (per non sprecare riferimenti…). No davvero, si è bevuto buon vino, frizzante, che quando lo abbiamo aperto ha fatto un botto da pneumatico che scoppia.

O da petardo nella notte.

O da bombe su una città deserta.

O da cosmos che ti esplode addosso.

Solo che quello il botto te lo fa dentro, in un punto indefinito tra le costole e il cuore. Non lo sente nessun altro. No, giuro che non sono sul cornicione. È solo una presa d’atto. Una bella attivazione di quella facoltà della mente che chiameremo ‘coscienza di valere una pippa e di contare anche meno’. Ma al di là di questo, si parlava di sveglie. Ecco, la sveglia è un ordigno infernale. Con quel suo cavolo di pulsantino, che ogni sera devi andare lì ad accenderla, se no il giorno dopo puoi anche dire addio alla scuola. È infernale perché per questo motivo tu devi fare la stessa operazione – accenderla – ogni santissimo giorno. È infernale perché ti rendi conto di quanti giorni passano. È infernale perché ti ritrovi lì, a puntare la sveglia, senza quasi distinguere un giorno da un altro, con la consapevolezza di essere arrivato a sera, ma senza sapere come. Ogni volta che si punta la sveglia, è uguale alle precedenti. E così ho la percezione netta e distinta di come i giorni si susseguano uguali, sempre a vivere a metà, sempre a finire col puntare la sveglia. Sempre a darmi l’appuntamento alla sera successiva: “Senti, adesso punta la sveglia e vai a letto. Poi domani ci vediamo ancora qui, sotto questa lampadina analfabeta e tiranna della sua poca smorta luce, davanti ai numerini rossi del display, più o meno a questa stessa ora. No, no, tranquillo: non me ne frega niente di cosa fai domani, con chi ti vedi, quanti votoni o votacci prendi. Basta che domani a quest’ora sei ancora qui a puntare la sveglia. Allora, solo allora, ci rivedremo. Prima no. È meglio”. Magari qualcuno potrebbe anche chiedersi tra chi avviene questa discussione. Bella domanda. Se lo chieda e si risponda anche, perché io non lo so e non mi interessa. Succede. E mi andava di scrivere così. Non è giusto comunque: uno punta la sveglia e gli scoppia il cosmos addosso. Come i petardi: mi è scoppiato il cosmos in mano. Mi sono partite le dita;

l’indice si è conficcato nella Polare, che ho passato un monte ore paragonabile a una settimana scolastica per cercarla quest’estate, sempre col dito puntato al cielo;

il mignolo si è incastrato tra il fa e il fa diesis del piano, dato che nonostante la tonalità si bemolle maggiore, io continuo a ficcare dentro (direi: surrettiziamente…) il fa diesis: prima o poi Bach mi trasforma in una canna d’organo, condannandomi a fare il fa naturale per l’eternità;

l’anulare l’ho perso, che tanto non porterà mai un anello;

il pollice si è confitto sanguinante nel dizionario di greco, a perenne monito per chi, come me, tiene il segno delle pagine con tale dito: mai e poi mai il diro e crudele greco renderà la dita a chi gli porse una mano;

chi manca? il medio; il medio mi è rimasto; è macabramente l’unico ancora attaccato alla mano, lui, solo lì in mezzo, in uno scenario vuoto, sanguinolento e livido. Ma lui, lì in mezzo, se ne sta fieramente alzato, a mandare affanculo il mondo intero. Ma queste sono altre storie, altre disgrazie… In fondo quando vedi che il cosmos crolla intorno a te, se hai del buon vino frizzante, puoi anche sorridere.

Osò guardare la reggia che crollava con volto sereno.

Poi fa niente se il personaggio che osò tanto, pochi versi dopo si suicida.

E vabbè, capita.

La salute ammalata

La salute non è tale perchè non si ammala mai.

Anche alla salute, a volte, capita un malanno.