Il mio filo rosso

Io ne sono sempre più convinto. Il bosco respira. Se lo guardi bene, nelle giuste condizioni di luce, nel primo crepuscolo, con la luce già rosata, ma ancora forte, limpida, a picco, potresti vedere – ma bisogna saper guardare – potresti vedere che la sua grande massa verde si muove di un movimento impercettibile. Ne sono convinto: respira. È una certezza che mi accompagna, che mi deve accompagnare. Una certezza, davvero, che mi segue come una madre, una figura confortante, una culla del mio essere stanco ed ancora affamato. Come è bella la morte che dicevano gli antichi: “è morto, sazio di giorni”. Tutto ciò che voleva l’ha avuto. E basta. Io no, ma il bosco respira.

Io no, ma il bosco respira.

Io no, ma il bosco respira.

È un loop. Come un circuito integrato, mi si incanta il cervello su una singola frase, la ripeto, all’infinito, nella mia mente. Sento una voce, che è la mia, dire quella frase centinaia di volte. E me ne convinco. A scuola tentano di ucciderti soffocandoti sotto una mole di spiegazioni e studio? Ok, ma il bosco respira. Aspetti un treno e, con quello, vedi passare e andare lontano anche il sentimento più puro e doloroso – strano ossimoro, strana realtà! – della tua vita? Ok, ma il bosco respira. Vivi in uno stato di sospensione, come un corpo che non galleggia né affonda? Ok, ma il bosco respira. Sospensione. Non c’è nulla di certo e galleggi ed affondi, un po’ su, un po’ giù. Little high, little low. Alla fine la panacea è vivere la giornata: spegnere la mente, smettere le domande, riporre l’abito del pensatore ed indossare quello sgualcito, ma comodo, della sospensione. Prendere ogni giorno come viene, senza la pretesa di arrivare alla fine. Senza domande. Le domande vanno lasciate per quei momenti di solitudine in cui puoi permetterti di affogare dolcemente nel tuo mare di amarezza. Amarezza perché in questa sospensione, in questa grande epochè, in questo relativismo cosmico, mancano i punti di riferimento, manca un’identità propria e definita. Come trovarsi in un grande prato, verde e bello, ma così grande che non se ne vedono i confini: senza riferimenti, rischi di vagare in una direzione convinto di andare in quella opposta e, quando ne esci, quando te ne ritrovi fuori, ecco che ti accorgi del colossale sbaglio. Non arrivi mai esattamente dove vuoi. Bisogna guidare la vita come un parapendio: certo le maniglie ci sono, certo puoi dirigerti un po’ a destra o un po’ a sinistra. Quelli più bravi spesso centrano persino il punto di atterraggio. Ma per gli altri è un viaggio in balia dei venti e delle correnti. È un’approssimazione. Un’approssimazione al centesimo della vita. Circa, ma non di preciso. E così vado a letto sull’orlo delle lacrime e mi sveglio con un groppo in gola. Ma mi zittisco: vivi un’altra giornata, stupido, ci vuole così poco. Solo altre ventiquattro ore, per poi essere di nuovo qui a trattenere le lacrime mentre punti la sveglia. Quel che succede non importa. Importa solo ritrovarsi qui tra ventiquattro ore. Ancora. Per sempre. Nothing really metters, to me.

If I'm not back again this time tomorrow

Carry on, carry on, as if nothing really matters

Adesso i benpensanti mi daranno del nichilista. I benpensanti, però, non vedono la propria vita come se ne fossero spettatori, non vedono la propria vita come sospesa tra il tutto ed il nulla; il tutto, anelito alla conoscenza, all’essere ed al fare, das streben; il nulla, il vuoto solitario, le inutili facelle che ghignano per questo nostro vagare tedioso e sadico. Se costoro oscillassero come me, se, come Medea, fossero tirati da due cavalli, uno indirizzato dalla ragione, uno dalle passioni, in due direzioni opposte, allora non oserebbero tacciarmi di nichilismo. Piangerebbero forse. Non è, questo, nichilismo. È, più grettamente, più meschinamente, in modo certo più consono alla mia natura profonda di cosa, di res extensa, di statua di merda che si trascina grondante nel letamaio della vita, sopravvivenza. Un mero spirito di sopravvivenza. Un’arma, un’ascia bipenne che per ogni colpo dato te ne restituisce uno di eguale forza. Come son veri i principi della fisica! Conservazione del moto! Bisognerebbe riformularlo come principio di conservazione dell’odio, del dolore. Ed in ciò sarebbe compiuta l’umana conoscenza, in ciò si troverebbe la risposta agli interrogativi del nostro essere sospesi: nella nuova fisica, la fisica del pianto. Riformuleremmo la nostra vita sotto la luce della consapevolezza del male che ci attanaglia, dell’inevitabilità del dolore, della giustezza della nostra sfiducia nel tutto. È un teatrino con uno squarcio nel cielo di carta. In quello squarcio ci siamo persi, il lanternino della nostra vista ha avuto la presunzione di elevarsi entro lo squarcio per scoprirne i segreti, scoprendo invece la sua inettitudine. Chi ci ha provato lo sa. È ormai affetto da un male curabile, forse, spero, ma indelebile. È un disadattato alla vita. E non c’è modo di riabituarsi a vedere la vita ignorandone il vuoto, l’incertezza. Apparirà sempre come un cosmo dal ferreo determinismo. Che paradosso! Una vita d’incertezza è un cosmo deterministico! Ma certo: un ordine così complesso e serrato ma di cui non si vedono i confini, i riferimenti. È quel prato, grande e verde, dall’erba curata – pure ben piantumato! Ma al suo interno ci si perde, abbandonati dal senso, preda delle domande. Un ferreo determinismo: non importano le scelte, non importa il singolo percorso di ognuno (non in ciò è deterministica la vita), quello che importa è la comune fine ed il dolore comune. Le cause, le premesse, ci sono. La concatenazione degli eventi, poi, è logica e prevedibile. La fine è scontata. La vita è una malattia che si conclude sempre con la morte. Come i greci sapevano già la trama delle tragedie che andavano a vedere e nello spettacolo non cercavano il colpo di scena, la storia, the plot, ma l’interpretazione, il modo in cui quel materiale noto potesse essere rimaneggiato, così la nostra vita, tanto prevedibile, tanto povera di trama, ci riserva l’unico gusto di scoprire in che modo il filo rosso che sottostà al prototipo comune di esistenza sarà infarcito nel nostro caso. Ed è un gusto amaro. Il gusto amaro di scoprirsi filo rosso dagli estremi indefiniti, sospesi (così fragili, così sottili) in un nero nulla cosmico. Un filo sospeso. Rosso come il sangue, caldo, nelle vene.

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