Inverno

Nelle morbide colline di neve
omogenee, friabili, vuote,
fredde e piatte sì che par che la vita
abbia lasciato quei loci, un lieve
fruscio, una fronda s’avanza, scuote

il gelo, bianco nel bianco ritorna
la vita.

E la Terra sospira...

Si parla di non-violenza.
Si parla di civiltà.
Si parla di sapienza.
Ma son solo ambiguità.

Tutti parlano.
Nessuno ascolta.
Tutti parlano.
Nessuno fa quel che dice.

Il sole s’alza in una cascata di sangue.
L’uomo, sfinito, sulla Terra distrutta, langue.
Chi si lamenta?
Forse non è colpa nostra?

Il sole tramonta in una cascata di sangue.
Il buio avvolge la Terra.
L’uomo sparito. La natura padrona.
E la Terra sospira...

Elianemon

Da scuola stavo uscendo a mezzogiorno
sul rumoroso autobus, io, solo,
del finestrino alla sporca cornice
abbarbicato.

Pensavo. E il nuvoloso cielo vidi:
grigia una coperta il giorno avvolgeva
già dalla mattina; ma ora un vento
nuovo soffiava.

Come in un dipinto a essermi trovato,
che un pittor d’estro acuto rifinisce
dando a dei meri segni anima e vita
con pennellate

così anch’io vedevo il grigio sfondo
essere dipinto con nuovo blu,
dapprima a tratti fini e impercettibili
e poi esplodendo.

O inverno! Dimenticar mi facesti
l’intenso lapislazzuli del cielo
che par di Michelangelo il giudizio,
ma pien di gioia!

O nubi! Il sole caldo, dove, dove
nascosto tenevate? che io non sentii
i suoi tiepidi raggi sul mio volto
per troppo tempo!

Che sensazione azzurro cielo e sole,
che strano potere avete voi, amici,
di rallegrar per un istante il cupo
mio vagare!

Ma già schiamazzan gli altri viaggiatori
ignari di quest’intima mia gioia,
ignari del colore che è tornato
almen per poco…

Zitti, stolti, lasciatemi ascoltare
dei gialli raggi questo calor buono,
non contagiatemi col vostro finto
essere allegri.

Io pur non vivo, è vero, ma rinasco
con un poco di sole e un vento vivo:
invece voi nell’illusione vostra,
fatta di grida,

non morti, né vivi, sopravvivete.

Temporale estivo

Oltre il vetro la cenere di cielo
di grigio tinge l’orizzonte piatto;
si staglia di pioggia un’inerte velo,
di sol un solo raggio splende ratto.

Buffa un nube avanza nel grigiore,
trema e vibra nel suo muto percorso,
laggiù, lontan, si scorge uno splendore:
non è sol: è soltanto un suo rimorso.

Suona lontana una campana, vana
sparge il rimbombo nella nebbia bianca;
s’alza il forte fragor d’una fontana
misto a quel picchiettar di pioggia stanca.

Il dolce odore acre della terra
al primo bagnatuccio si sprigiona:
insieme naso, gola e mente afferra
mentre su in alto un cupo tuono tuona.

Si riempiono i caffè e i ristoranti,
ognuno dove può cerca riparo
ombrelli aperti, ombre tutte tremanti,
bagnarsi costa un gran sorriso amaro.

Ormai finito il temporale moro,
il tuono sposta il suo fragor lontano;
mentre le nubi squarcian lame d’oro
già gl’ultimi diamanti cadon piano.

Donde viene il caso mio

Nell’acqua acquitrinosa e morta,
un giunco assicurato al fondo,
sembra pietra che quantunque torta
resta irremovibile.

Ma in mezzo ai marosi e alle onde
si piega. Resiste. Si spezza.
Trascinato inghiottito -Donde
- chiede - viene il caso mio?-

Un pioppo

Un pioppo
c’è
nella radura.

Le foglie fruscianti al vento d’estate
danzano al tempo dei baci infuocati
che di innamorati coppie incantate
si scambiano, i corpi al tronco intrecciati.

Stelle d’estate,
riflettori
su passioni private.

E tutto il bosco, e tutta la terra
e tutto lo spazio del firmamento
riluce del sentimento che atterra
e batte accanto al pioppo il cuore lento.

Lontane
luci
di città.

Dormon le strade e son vuote le vie
morto scenario di nuova città
ma nella radura c’è il pioppo antico
e qualche amante lo circonderà.

Dolce
scende
nel petto
la linfa
del pioppo,
nel blu
della notte
verde linfa
vitale.

Colico

O cirri idropéi!
O monti svettanti!
O splendenti acque!

Nostalgia di voi mi preme
appen volgo il guardo al piano!

L'armata

L’armata procedeva lenta e costante nella campagna grigia, in un cielo che trascolorava ormai fra il blu e l’acciaio. Le stelle cominciavano a fare capolino dal cupo abisso notturno e la luce del sole morente bastava a illuminare appena un lembo rosso a ovest. Nessuna nuvola. Nessun vento. La campagna era innaturalmente immobile, statica di fronte a quella colonna interminabile di uomini, di cui non si scorgeva né l’inizio né la fine. Gli elmi luccicavano radi e l’intero esercito sembrava un fiume dopo la piena, quando, ancora gonfio di piogge e impetuoso, rallenta il passo e il sole splende rifranto sulla superficie increspata dell’acqua. Un fiume d’acciaio. Il greto la vecchia strada, di polvere e terra, con qualche cespuglio e grossi mazzi di erba secca fra i solchi dei carri. Una casa di pietra, col tetto di paglia, sorgeva in mezzo al mare dei campi, più grande di una mezzadria, più piccola di una normale abitazione. Un sottile filo di fumo si contorceva agonizzante sopra al tetto sbilenco, uscendo da una fessura fra i rametti. La colonna avanzava, inesorabilmente, in un silenzio angosciante e impossibile, senza uno scricchiolio, senza un cigolio d’armatura, uno spezzarsi di rametti, un tonfo di passi. Nulla. A intervalli regolari alti cavalieri interrompevano la lunga schiera di fanti, i cavalli ornati e bardati come in una parata. Ma quale macabra parata! Che triste malinconia di rimpianto in quei gesti meccanici e perfetti!

Niente e nessuno si muoveva nella campagna a parte l’esercito. Nella casa di pietra, l’uomo guardava dalla finestrella scalcinata. Aveva paura. Chi era quella gente? Lentamente la luce spariva, il rosso si incupiva. La notte stava prendendo il sopravvento e la schiera avanzava. Ogni soldato era uguale, ogni armatura identica alle altre. Quanti saranno stati? Un corvo si alzò lentamente, descrivendo un ampio arco nel cielo buio. Nero su nero, notte contro la notte. Si udì uno stridio e il corvo precipitava dal cielo nero in mezzo a un campo. Una brezza leggera si alzò a scompigliare le spighe, ma la colonna procedeva uniforme e compatta. Ormai le stelle brillavano e la luna splendeva sulla campagna desolata. Il sole era sparito, inghiottito dalla terra, come lo era stato il corvo. L’uomo guardava l’armata e guardava la luna, unica interlocutrice, unica testimone di quell’angosciosa marcia. Nell’argentea luce lunare infatti la colonna procedeva, senza fermarsi, senza che se ne potesse vedere la fine. Persino l’inizio era un’incognita. La notte era fredda e limpida. Come in un sogno l’uomo restava alla finestra, appoggiato alla pietra gelata, a contemplare il fiume che trascorreva costante sulla strada. Andavano verso la città. Non sapeva quale, non sapeva perché. Venivano da lontano. Chissà quando avevano cominciato a marciare. Chissà quanto ancora avrebbero viaggiato. E quanti erano? L’uomo non lo sapeva: c’erano sempre stati e lui sempre li aveva guardati. Mai una sosta per quell’esercito, mai un rumore da quell’armata. Un’armata. Non più di un brillio e di un guizzo di luce.

Quella notte, nel cuore della notte, l’armata si arrestò. La brezza era ora ferma. Le spighe non si muovevano. Il freddo pungente, il cielo limpido. La colonna era ferma e i soldati restavano inquadrati nelle righe. Il freddo aumentava. Di colpo all’uomo sembrò che ci fosse meno luce. Perché si fermavano? Cosa stava accadendo? Le stelle più piccole si oscuravano. Poi le più brillanti, Sirio e l’Orsa e Vega e tutte quante si spegnevano, morivano a poco a poco. Il cielo era nero. La luna svaniva in fretta coperta da una coltre cupa. Ormai nulla si vedeva più. Eppure egli sentiva la presenza dell’armata, sulla strada. Gli sembrava di essere nudo e inerme di fronte a loro, gli sembrava di essere stato visto. Aveva paura. La temperatura era ormai scesa sotto ogni limite di sopportazione e l’uomo stava per mettersi a gridare. Ormai aveva lasciato la finestra, incapace di resistere. Non vedeva niente e aveva paura. Una candela. Non poteva accenderla. Il fuoco era spento, la legna non si accendeva, le pietre focaie non facevano scintille. Nella sua anima sentiva un vento impetuoso ululare, sentiva i rametti del tetto trascinati via, sentiva le pietre della casa che scricchiolavano. La porta di legno si spalancava, il gelo penetrava ancora di più, la luce mancava, i soldati erano sempre fermi; il dolore, il dolore aumentava, si faceva spazio dentro di lui. Boccheggiava, l’aria... dov’era l’aria? Vide la luce bianca e fredda, vide il corvo alzarsi nel cielo e cadere, le spighe ormai divelte volavano in un unico vortice sulla campagna. Le spighe! I campi! Tutto moriva! Tutto appassiva! I soldati inquadrati nei ranghi restavano immobili. Lame di luce squarciavano le fessure fra le pietre... la casa! Che oppressione! La casa! Usciva correndo dalla casa, urlava ma la voce moriva in gola, scappava via, lontano da quei soldati funesti, ma veniva attirato verso di loro. Correva, rotolava, cadeva, correva rotolava cadeva incespicava non poteva fermarsi, lontano!, lontano da loro fin dove poteva fin dove riusciva ma dove? dove si poteva fermare? dove trovare pace? Perché non poteva sfuggire... e quel rombo! Quel rombo! Da dove veniva? Perché? Per lui? Le montagne! Le montagne in fondo alla piana... salvezza! Salvezza! Ci poteva arrivare, poteva... il freddo, il freddo. Poi tutto cessò.

Si ritrovò fermo ai piedi di un fante, una fredda armatura, vuoto guscio. Il buio permeava la notte. Niente stelle, niente vento. L’armata era ancora ferma. A fatica si rialzò. Era impedito nei movimenti da qualcosa. Era pesante. Non sentiva più il freddo. La luce tornava poco a poco, le stelle, la luna, la campagna ancora tranquilla e scompigliata dalla brezza, la sua casa come al solito, col filo di fumo che usciva dagli spiragli del tetto, le pietre tutte perfettamente in ordine, la finestra da cui poco prima guardava... ma non riusciva a tornarci. Nella colonna ora c’era, proprio vicino a lui, un quadratino di terra vuoto, un piccolo spazio libero. Il terreno della strada in quel quadratino era calpestato, nero, quasi morto e bruciato. Vi si alzava un piccolo filo di fumo. Tutti erano fermi, nessuno lo guardava. Vuote armature. Non comprendeva cosa ci facesse lì. Ignorava come ci fosse arrivato. L’uomo, però, non tremava. Non aveva paura. Anche la luna, la luna bella, gli passava addosso col suo fluente chiarore senza toccarlo. Sentiva dentro di sé un vuoto, un vuoto insostenibile, un grande silenzio nel petto. Fece un passo. La sua mano batté contro la gamba. Per tutta la campagna risuonò un forte clangore metallico. Si guardò. Alla luce della luna le sue mani scintillavano di lucente acciaio e il suo corpo era temprato e resistente. Il gomito era una giuntura flessibile. Le mani, dei guanti di ferro. Si toccò il capo. Un elmo, un elmo di cavo metallo. Cos’era? Non lo sapeva. Un cavaliere, un’armatura vuota su un cavallo di fumo, gli si avvicinò. Stese un braccio, indicando il quadratino vuoto. La nuova armatura vi si portò e si mise in riga come gli altri. Il cavaliere lo guardò per un attimo. Poi, voltandosi, disse:

-Benvenuto.

E l’armata mosse.

Senza titolo

Fluida s’affusola l’alga
nell’acqua che rapida scorre
incredibili crea figure
le curve, le rette, le onde...
Fluida s’affusola l’ombra
dell’alga che muove sinuosa
i passi danzanti di danza marina
sul fondo sabbioso
del mare in tempesta.
Fluida s’arrotola l’onda
sul lito di gialla farina
di grano e di messe marina
che copre e rivela gioconda:
segue quell’alga quell’onda, quell’ombra
che fluida si torce al fluttuàre
del mare.

Occhi e stelle

Le stelle ci guardano. Anche se non è vero è bello pensarlo. Ogni tanto fa bene tornare coi piedi per terra, guardare le stelle e dirsi "che pirla che sono, le guardo quando a loro non frega niente di me...". Ma è questione di attimi e di dottrine: la bellezza del cielo stellato, la danza degli astri, è capace di stregare... e le stelle tornano a vedere, anche solo perchè io, io voglio che loro mi guardino... Non so cosa vedano, ma vogliono che mi guardino... E quella sera, su quella spiaggia han visto tre paia di occhi scrutare il cielo così assiduamente, che loro stesse, le stelle, hanno avuto l'impressione di essere nude davanti a quegli sguardi. Hanno visto tre paia di occhi accendersi di meraviglia, di rancore, di tristezza... Li hanno visti tornare alla normalità, al loro opaco biancore...


Fabula felicitatis

In cima alla torre più alta
poi ch’egli travagli ebbe immani,
l’uomo, ch’è un fantoccio di carta,
protende alla bella le mani.

Già quasi tocca l’infinito,
e l’immota, splendida bella,
un soffio le agita il vestito
e sì vicina è la sua cella.

Ma un drago multiforme e ostile
si para innanzi al cavalier:
quella bestia subdola e vile
respinge indietro quell’uom fier.

L’uomo sopraffatto dal male,
già sente la scura chimera.
Dallo squarcio umano e fatale
non più sangue, ma bile nera.

Sonetto

Muore la luce nel cielo lontano.
Dispare quel fuoco ardente in eterno.
Nel solitario tramonto montano
la speme affoga in un gelo d’inverno.

È destinato a rinascere ancora,
a risalire la china del cielo,
porta speranza nell’alba che odora
del familiare profumo del melo.

Ma nella notte, nel buio profondo,
quando non resta che lagrima amara,
rimangon le stelle a guidare il mondo.

Così nel giorno di gioia più chiara
fa attenzione: s’addensa là in fondo
cupa una nube, di gioia assai avara.

Zoe

Si muove nel vento una foglia
si alza, si torce, s’abbassa,
si blocca di casa alla soglia,
giù, sulle sorelle s’ammassa.

Riprende il vento, solleva
la foglia, la scuote, la porta
lontano. Di nuovo la leva
nell’aire, la strazia, pur morta.

Non può opporsi una foglia al vento!
Lo deve seguir, non ostante
non sappia dove vada, lento
oppur veloce, incostante.

Censura

Un lupo, nel cupo tumulto
di notturna tempesta tediosa,
ulula alla luna, per molto,
esprime il parere all’odiosa.

Il dolce usignolo la sera
canta la vita e l’amore,
il suo sentimento s’avvera
appena si schiude il suo cuore.

La rana di stagno canora
gracida alle verdi compagne
la chiacchiera dell’ultim ora
e le sue instancabili lagne.

Perché dunque a me si vieta
parlar di attuali problemi?
Perché l’uom così s’inquieta
a toccar i suoi propri temi?

Il lupo, nessuno comprende.
L’usignol rimane un mistero.
La rana , idea ben non rende.
Ma l’uomo che dice il vero,

costretto al silenzio dall’alto,
definito calunniatore,
com’un animale di scarto,
ben presto vien messo a tacere.

Morte della ragione

Suona l’organo,
nelle alte volte della cattedrale
si sparge il rimbombo.
Buio; il soffitto è in ombra,
non si vede.

Dagli alti battenti un treno
di luce squarcia la chiesa
a metà.
Si chiude la porta; buio,
non si vede.

Si sparge l’incenso; la salma
immobile, priva di vita,
guarda un punto lontano:
ma è buio, il soffitto, in ombra.
Non vede.

Frenetiche treman le candele,
luce finta e incostante,
bollenti, come il ghiaccio
a contatto con la pelle. Luce fioca,
non si vede.

Aumenta il rimbombo.
L’organo assorda gli astanti,
la salma chiede pietà,
un fiore sul petto trema, cade
sul nero pavimento. Non si vede.

Finita la messa, l’organo tace,
la porta si apre, ritorna la luce
del giorno lontano,
la salma la guarda, non osa,
non può, non vede.

De caelo tactas memini praedicere quercus

De caelo tactas memini praedicere quercus

Brutta giornata. Nebbia, grigio diffuso. Autobus pieno di prima mattina, odiosa mancanza d’aria, di spazio. Finestrino appannato. Uno sconosciuto mi cade addosso, non si scusa. Nella cartella pulsa il libro di Storia, dice “Non hai studiato! Non hai studiato! Prenderai quattro perché mi trascuri”. Flebile la voce del versionario di Greco: “Ma smettila, che per studiare Storia non ha fatto Greco… ah ma tanto oggi, te lo dico io, ti interroga”. Il diario: “Basta, sono sicurissimo che per oggi non c’era né Storia né Greco da studiare” (con voce da segretaria, ma sta consultandosi al giorno sbagliato). L’autobus inchioda. Cado rovinosamente e rimbalzo contro un palo e pesto i piedi a una e mi sveglio.

O mattutino grigiore

O nebbia di buio sonno,

singhiozzante armonia

dello stanco dormiveglia.

Barocca e ridondante. Potrei fare di meglio, ma ho sonno. Le parole mi viaggiano davanti, buoi intenti a dissodare un terreno di mezze frasi e poesie mancate.

La nebbia del mattino…

Sembra Carducci… È che ho la mente a Storia, che c’è la verifica… Comunque sono pronto, ho studiato. O almeno, mi sembra di essere pronto. Cioè in teoria, a meno che non chieda impossibilia, dovrei essere pronto. Forse non sono molto sicuro. Stop. Sono pronto, sono pronto, sono pronto, sonopronto, sonopronto sonoprontosonoprontosonoprontosonopron… flash. Nel mezzo del cammin del mio pensiero, toh guarda un raggio di sole! Mi sto distraendo da Storia, devo essere più ansioso, se no non mi concentro abbastanza e do tutto per scontato e sbaglio in pieno e prendo quattro.

O palloso dì scolastico

che il cuor a mille mi fai andare!

Degna delle 7,30 di mattina. Cioè: schifosa. Ma non c’erano intenti particolari, solo una pura e semplice verità. Quanti cuori su un pullman ATM Milano-Magenta-Cuggiono, quante piccole vene nascoste, minuscoli capillari pulsanti, quanti globuli rossi, quanti piccoli movimenti, quanta piccola vita? Quanto amore, odio, quanta preoccupazione (per Storia!), quanta tristezza? Quante risate, sorrisi o solo smorfie di labbra che vogliono liberarsi della loro tensione, dopo tante espressioni imbronciate? Quanti occhi, fittamente intrecciati, aperti, chiusi, opachi o brillanti di un nuovo fuoco, appena sbocciato fra la puzza di benzina e di ascelle (perché c’è già alle 7,30)? I paesi, uno dopo l’altro, si presentano come una lunga fila di case. Nulla di più, per quanto distinguo per lo fioco lume e pel finestrino appannato. Forse un albero grigio in un parco. O forse è un patibolo, con un impiccato, sì!, un impiccato con gli occhi aperti, fuori dal sicuro riparo delle orbite, con la lingua nera e gonfia e la faccia bianca e il collo spezzato. Ma è già passato, è già cambiato paese, ora c’è una rissa per un posto che si è liberato più avanti, ora c’è una signora che impreca contro gli zaini, cade e muore. Poi resuscita e fa sparire tutti gli zaini e tutte le verifiche e porta a tutti cappuccino e caffè e il caffè cade e inonda l’autobus e arriva una nave e mi ri-sveglio.

Navi, barche

scialuppe e vascelli,

che bianco solcate il mare

di onde, portate nel legno

portate nel fondo

delle vostre stive

un poco di vento,

un poco di sale.

Portatelo a me,

portatelo qui,

il mare portate

che possa sentirlo:

che possa coprire ruggendo

questo rumore,

sapore

di marcio.

Ok, mi sono addormentato, lo so. Non capiterà più. Ma è questo pullman, questa mattutina noia, questa pallida reminescenza di un ben più profondo sonno, ahimè, interrotto. Caldo lettuccio, morbide coltri che sfidano con sorrisi di tessuto l’opaco gelo dell’alba, coperte che con i loro mille colori si fan beffe di quel frigido grigiore muto. Che stupefacente scatola di vita, un autobus! Cosa accadrebbe se una gigante mano scendesse (sembra “e provvida venne una man dal cielo…) e scuotesse l’autobus, lo scuotesse forte, shakerasse per bene e a fondo tutti i suoi passeggeri? Quali, grandi, nuove, combinazioni nascerebbero, verdi germogli di mai provati miscugli? Ecco, ecco che il ragazzo qua avanti non avrebbe più al suo fianco la fidanzata, ma una bisbetica quanto lusingata vecchietta, con un gran cesto di arance appena comprate… e laggiù ecco che la migliore amica di Tal dei Tali diventa la sopraccitata ragazza (cui la vecchietta ha ormai rubato il fidanzato, vegliarda rubacuori), la quale racconterà ogni pettegolezzo della sua storia, mentre al posto dell’autista, ecco, il tamarrozzo seduto là in fondo, che comincia a guidare spericolatamente sui marciapiedi, schivando pedoni di passaggio e cestini ridondanti. Ogni discussione rotta rinasce con nuovi interlocutori, ogni distanza annullata e ogni vicinanza separata da muri di folla. E intanto corre, corre il bus, mangia il grigio asfalto, vomita grigio fumo, e, come per un sortilegio, nella sua scatola arancione e blu, si ingrigiscono i passeggeri, assopiti viandanti di un interurbano pellegrinaggio quotidiano. Passeggeri. Coloro che passano. Una nuvola passeggera, una passeggera letizia, una passeggera tristezza, moda passeggera; una persona passeggera. C’è. Ma fra poco? Passa. Passano, lente, le marce della macchina, scala la frizione, passano i paesi e passano i minuti, passano i mesi e gli anni, passano persone ed odori, passano gioie e passano dolori. Passano momenti così piccoli che sembrano destinati a sfuggire al pur fitto setaccio del tempo. Ma passano. Passano colori che si perdono dietro al finestrino appannato, passano forme indistinte che sono marziani o bambini, auto o astronavi. Passano i passi leggeri di qualcuno, perdendosi nel silenzio, affogando nella loro stessa flebile, piccola, sorda eco. Tempus fugit. Et secum vitam nostram, inanem lacrimam vacui, fert. Passano le persone, si lasciano un’orma dietro di sè. Un’orma che come tutte le orme, dura quel poco che basta al mare per cancellarla. Non c’è più nessuno sulla spiaggia ventosa, solo le tracce di piedi scalzi e spensierati, che ricamano la sabbia umida del tramonto. E tra poco nemmeno le impronte resteranno, nemmeno loro. Certo alcuni lasciano impronte più profonde, che l’acqua, il gelo, il vento faranno più fatica a cancellare; sarà un attimo d’immortalità in più, un frammento di infinito. Ma non sono indelebili, non sono infinite, non sono immortali: anche le impronte più marcate, più profonde, se ne andranno. Del piede che le calcò, nessuna traccia. Passano momenti così piccoli che sembrano destinati a sfuggire al pur fitto setaccio del tempo. Ma passano. Passano i passi leggeri di qualcuno, perdendosi nel silenzio, affogando nella loro stessa flebile, piccola, sorda eco. Così passa anche questo autobus colmo di sentimenti e pensieri, strabordante spiagge ventose e deserte, granelli di sabbia in volo, plananti sulla pelle screpolata dal sole, arida. Passa l’autobus e arriva a scuola, alle interrogazioni di Storia e di Greco, al normale giorno che attende la nostra vita. Si scende alla fermata e l’aria è fredda, una gelida secchiata che risveglia le membra, ridesta la mente. A cosa stavo pensando in pullman? Non ricordo… devo andare, sono in ritardo… mi tornerà in mente.

A un'amica

Ridevi forte, pareva
che facessi finta.

Ma eri felice, o forse
no. Serena credo.
Ridevi.

Mi dissi:
"La vado
a trovare
in ospedale"

Risposi:
"È grave?"

"No non lo è"

Nemmeno una

settimana

e piangevi,

piangevi

svuotata non

sapevi non

pensavi non

ne eri capace

piangevi forte

"È morta! È

morta

la mamma!"

Maschera

Mute le orecchie
di chi dovrebbe ascoltare.
Parlano. Dicono:
son solo io a soffrire?
Perche non si accorge?
Mi accorgo
e tu pensi di no
pensi di aver
tu sola
problemi.
Mute le orecchie
di chi dovrebbe ascoltare.
Perche vuoi che ascolti
ma tu mai
non mi senti?

La rondine

S’alza la rondine in volo
nero puntino nel cielo
s’alza con l’ali leggere
incontro a nere chimere.

Non sa a che cosa va incontro
ma sa quel che prova dentro.
S’alza nell’aire serena
senza nel cuore la pena.

Forse non è come appare.
Forse non sa cosa fare.
Nell’alma sua, inquieta,
s’accende una luce, cheta.

Vola e continua a volare,
vola vivendo la vita,
cresce e non sa dov’andare,
vola viaggiando smarrita.

Quale la meta? Lo scopo?
Quale il fin ultimo e ‘l dopo?
Incognite... Forse... Forse...
Spesso cadde e risorse.

Giunge alla fine del viaggio
quando cade il rosso raggio,
l’ultimo. Si volta indietro
nel cielo vuoto, di vetro.

Ma non si può ritornare,
nel tempo solo affogare,
seguir il viaggio e perir
senza il motivo capir.

Giunge del viaggio alla fine
sotto alle stelle divine
le manca poco a posarsi
per mai più risollevarsi.

Si posa e lieve dispare
un soffio di vento australe
cancella ‘l viver passato
e l’inizia all’infinito.

Vola e continua a volare
vola e rimembra la vita
cresce e non sa dov’andare
in quell’essenza infinita.

Nessun la può ricordare
ma lei continua a viaggiare,
nel vento lacrima informe
di antico male che dorme.

Seta d’amore, fuoco di buie passioni, angusti vicoli di speranze. Periferia, malsano e squallido luogo di terrore. Palazzi fatiscenti, abbandonati edifici, cornici di tristi quadri (anti-idilli!). tuono, pioggia, vento. Sibila fra le strade, frusciano silenzioso sotto le suole e frugando fra le sottili foglie morte, assassinate. Luce intermittente, cabine elettriche diroccate, vestigia della manutenzione mancata. Grandi distese di rovine materiali, rovine di vite umane e animali, rovine vegetali di piante stecchite, affumicate, avvelenate, appassite, marce.

NARRAMI O MUSA...

Narrami, Musa, tutto quello che vuoi, cominciando da dove preferisci... Non pretendo nulla. Non spero nulla, non temo nulla, sono libero. Chi legge me, non può sapere se quello che scrivo è la maschera, la cera bianca e colorata che mi copre, mi nasconde, oppure se è la verità, la mia essenza profonda, il distillato che elimina l'eccesso, l'eccipiente, il non utile, per lasciare la nuda anima mia, pronta e consapevole della sua vulnerabilità, delle ferite che le infliggerete, che le avete inflitto.

Sarà l'arte, sarà la tecnica, che difettano. Forse la perfezione retorica, stilistica, mi manca. Ma non l'umida lacrima, non il minio che colora le guance degli sguardi innamorati e schivi, non il brivido bluastro che percorre la spina dorsale, l'emozione.

Sarò anacronistico. Non so. Il nostro tempo sembra inguaribile. La poesia è morta, pare. Dove non è morta, è in coma. Provocazione, rabbia, meri paesaggi. Rinnovamento stilistico e formale. Eccola, la poesia, nel 2007. Il sentimento, quello, è dimenticato.

L'ho detto: non pretendo nulla. Un libero sfogo e la possibilità di fare, di scrivere ciò che mi pare, mi paiono sufficienti. Non pretendo di essere bravo o capace o geniale. Non pretendo di essere innovativo o originale. Sarò quello che sono, dirò quello che sento, come lo sento. Io canto quando posso, come posso, senza applausi o fischi...

Per il bello, per l'infinito, altri si accinsero all'inchiostro, meglio di me. Per il bello, per l'infinito, basta un cielo stellato, Sirio, Vega, Arcturus, la gialla... e le altre stelle, che non hanno nome, per me, se non quello che è stato dato loro dalle spensierate e meste fantasie delle sere estive baciate dal fuoco celeste, le sere dei siderascopi, quando il firmamento notturno era splendido, illuminato dalla costellazione della rapa, dalla C, da misteriosi velieri e lontano, forse, la senti? è una musica, musica strana... il lago, il lago nero, le acque da non disturbare, non risvegliarle, le acque, non risvegliare quegli incubi, di solitudine, nel grigio anno scolastico, di buio nel buio, senz'aria, nell'arancione di un pullman che passa ogni mattino per la fotocopia sbiadita di un mondo dimentico dei colori, della vita, della gioia... Profumo, vento tiepido una sera di maggio, vicino al canale dell'aperta campagna, le ciliege stanno già maturando, hai visto?, puntini rossi, scarlatti, piccole gocce di sangue nel verde del loro grande albero impassibile, come l'acqua che gli scorre di fianco, torbida, indolente. Un sentiero lungo, lepri che corrono, corrono come noi, col vento in faccia, quell'aria che si sente la sera, che di sera ammalia la mente, blocca il pensiero davanti al tramonto, dilata gli attimi... Hoc placet. Semplici campagne, monti terribile ed affascinanti, un mare noto e ignoto insieme, che riverbera la luce, del sole, dell'argentea luna, non so... non mi interessa...