Iemale naso rubicondo

Io penso.

Vedi come là vicino alla cima se ne sta
la neve, alta, sospesa, indefinita?

Ti pare che rifulga il candido brillante
così in sé concentrato ed indifferente.

Vedi che nevica e piove, vedi che il freddo
è sceso a irrigidire i movimenti, arrossare i nasi?

Dal cielo grande tempesta: le correnti
dei fiumi si sono gelate.

Abbatti l’inverno, aggiungendo
legna al fuoco, cingendoti le guance
di morbide sciarpe di lana.

Vedi che la neve è ferma e si muove?
Vedi che la neve risplende gelida?

Scaldati al camino, se puoi,
trova qualcuno.

Vedi come sono solitarie quelle bianche cime?
Solitarie, fredde, bianche e maestose.

I picchi scoscesi
e le cenge abbarbicate
ai fianchi dei monti
invernali
mi guardano contemplarli
così immensamente
stupito stupido e solo.

Io penso.

Discon nes sion e In t ell et tiv a

Petali d’alba
stamane
hanno dischiuso il giorno
alla mia assonnata presenza.

Quante domande navigano
nel mar dell’intelletto?

Quanto poco basta a turbarmi?

Una frase.

Quanto poco basta a turbarmi?

Un’altra frase.

Sono turbato.

Ed ancora c’è chi teme
l’orribile disgrazia!

Ne rido? Non posso.

Ecco il mio pensiero
come funziona:
vedi sopra.
A strappi ed a spezzoni
esso procede.

Palim palaios

Che bella, questa giornata.
È bastato solo un sorriso
per farmi sentire l’odore
dolce del bosco autunnale
fra scialbi banchi di scuola.

Che bello, è stata un’occhiata,
un abbraccio che era intriso
di amicizia e di calore,
per lenire il mio male
senza neanche una parola.

Too much - Explode

L’affetto che provo è troppo.

Troppo bene io voglio a troppe persone.

Dovrei andarmene via.

Non è fuggire, no, non è scappare.

È cercare nuova gente.

Nuove relazioni superficiali.

E da lì ricominciare.

Senza quella paura di ferire.

Certo senza affetto, è vero.

Senza quella paura di ferire.

Non c’è profondità, è vero.

Senza quella paura di ferire.

Ricominciare da me.

Senza quella paura di ferire.

Vivrei in un annullamento della mia persona,
un annullamento in cui emergerebbero
i miei veri caratteri, gli istinti, l’impulsività,
senza quella paura di ferire qualcuno,
libero dai legami
ricostruirei una vita soffocando il vuoto
con la novità.

E poi?
E poi?
E poi?

Non c’è scampo.

E poi?

Paignion, scherzo, anzichenò

Ho un dubbio
metafisico:
perché la gente
inorridisce se descrivi
te stesso mangiante
la porchetta?

Temo che l’orrore stia
nella parola ‘porchetta’.
Ma allora mi devo accorgere
di quant’è l’ipocrisia
di gente che non ha schifo
a dire col cuor leggero
negro, ebreo, diverso, frocio,
ma pensa il suino salume
con disgustato ribrezzo:

lo mangiano con gusto,
ma guai a sporcarsi la bocca
con l’odiata parola!

Nox cuna hominum

Nox erat et placidum carpebant fessa soporem
corpora per terras silvaeque et saeva qierant
aequora… e quando in mezzo al giro sono
le stelle, e dorme, dolcemente dorme
il mondo, il campo fragrante, il gregge,
dormono gli animali, l’acque, le rocce,
dorme la notte addormentata e posata
con delicatezza sulle vite pulsanti
e si spegne l’aspro fragore del giorno
e s’assopisce il tumulto dei pensieri
e più chiaro e più distinto appare
questo ardito ma indolente vago girare,
al nulla condannato e qui cullato
da questo buio che al buio maggiore
la mente, suggerendo, porta, conduce,
mi appare la dolcissima illusione,
figlia della luna e di queste tenere
nubi, che una chiara manciata
di stelle trafigge senza pianto
né dolore, solo un sussurro di astri in moto,
illusione che l’impalpabile farina
della esistenza che ci teniamo stretta
sia cuscino di una culla molle,
sia la ninna nanna che sussurrano i cirri
nel cielo, le note di un fungo che cresce,
il vago presentire di un domani incerto,
un soffio caldo che scuote l’aria immobile
della lucida sera che dorme all’aperto,
velata da una coltre di nuvole, labile,
l’illusione che esista in un punto ignoto
tra la luna e le galassie, tra gli atomi
frementi in una ordinata calca, un senso,
un profondo senso perso e dimenticato,
un senso che consoli l’errabondo muoversi
degli astri, della terra, del pensiero nostro,
del giorno frenetico, delle vite pulsanti
e delle rocce, dell’acque e degli animali,
del gregge che bela, bela ancora nonostante
tutto, del campo fragrante che un contadino
cura e un pensatore ammira, del mondo
che danza regolare nello spazio e ripercorre
il sinuoso e materno moto di una culla.

Mechanismos

Questa strana sensazione di vago terrore,
un fischio ovattato alle orecchie
ed il collo che pulsa sangue,
deglutisce sangue,
sanguina.

L’horror vacui che nell’arte non capisco
(più bello è quel senso indefinito,
quanti inutili fiorellini morti)
mi ha incatenato
qui.

Monta un’onda spumosa e affogo
nel rogo di quest’incertezza,
carezza agognata
morte.

E mi chiedo che senso hanno le lancette
di un orologio, girano per un nulla
che non le ringrazierà mai:
meccaniche.

E mi chiedo che senso hanno i giorni
di una vita, si seguono per un nulla
che non li ringrazierà mai:
meccanici.

Questo grande appuntamento con la vita:
domani ci troviamo ancora qui.

Perché?

La luna dopo un più forte sole

È notte e mi rimbombano
le orecchie; confusa la mente è invasa
da tante e tante immagini di vita,
suoni, stranissima normalità.

Normalità inesistente, persone
suonicolori, un grande turbinio,
un vortice, continua a imperversare
col suo rumore nel silenzio vuoto.

È notte e sono solo,
mi rendo conto che non è per me
tutto quell’happy hour nelle strade,
tutto quel formicare brulicante.

D’altra sostanza sono fatto io,
una ben più sottile solitudine
chiede in me silenzi da cattedrale,
non voci della fiera della vita.

Ma la fiera misteriosa e ignota
coi suoi colori e i suoi angoli bui
è la magia che affascina i bambini:
con le gambe molli per il terrore,

con una strana gioia curiosa,
si aggirano – eccitatissimi ciechi!
Anch’io con paura di estraneità,
m’aggiro in questa festa colorata:

un avido e un pauroso della vita.