Palpita piano

Era sera ed ero stanco: che strana vita di luce nel buio e d’ombre tra le fiamme. Tra i più minuscoli puntini luminosi di una televisione non c’è forse uno spazio vuoto, una tenebra indecifrabile, un’amara indefinitezza? Non c’è, forse, anche nel giorno di sole, la nuvola candida che oscura un attimo il chiarore meridiano? E se non c’è, non siamo noi stessi a ricercarlo, quel momento di buio, quell’attimo di tregua per gli occhi affaticati, abbarbagliati dai raggi laceranti? Ed assecondando la richiesta pregata ed urlata delle pupille, assecondando il corpo che si scioglie, rifuggiamo il sole, ricerchiamo ombra e frescura, ristoro delle membra, solitaria pace che sopraggiunge ed imperversa nell’animo abbagliato. Così, pare, ci fuggiamo, mettiamo distanza tra noi e noi stessi, accecati dalla consapevolezza di un’identità che non è mai propria, che ha sempre squarci di luce capace di ferire e ombre buie ed insondabili che, soltanto, possono suscitare timore, terrore, ampi beccheggi e rollii di una sicurezza vacillante. Grande palazzo in preda al terremoto! Li senti, i laceranti scricchiolii? Odi questa crepa che, brivido lungo la spina dorsale, lo percorre dalle fondamenta, dal basso all’alto, squarcia tutti gli alti piani fino all’ultimo, più segreto, intimo ed inespugnabile terrazzo, quello biblicamente occupato dal profumo di bucato e da panni che sbattono al fresco vento asciugatore? È il sole che scricchiola, è il vento che riluce: mentre crolla il grande palazzo, vestigia antica di un’architettura desueta, mentre il suo grande cuore palpita – cuore di cemento! Non ne senti i fragorosi ultimi colpi battere battere battere? – nelle centrali stanze dai muri scrostati, un piccolo cuore di bimbo, dimenticato dal mondo di fuori, piano, palpita piano, palpita gl’ultimi colpi piano, palpita pochi delicati infantili colpi piano… Nel buio fragore dell’edificio nel sisma, contro i colpi del cuore di cemento che rimbombano forti, si ergono quei piccoli soffi di un cuoricino febbricitante: al fianco non c’è una Madonna che piange un sorriso, non c’è una mano che scende a salvarlo. Sussulta nel crollo il grande edificio, sussulta e crolla, i soffitti di legni pregiati, i grandi saloni dalle pareti di marmo, franano gli uni sugli altri, soffocano con un ultimo colpo quel fragoroso cuore dalle sistoli in calcestruzzo. E nel nuovo silenzio, nella calma della polvere inerte che cade e volteggia, tu tendi l’orecchio: dov’è quel flebile palpito d’un cuoricino? Risponde la polvere, rispondon macerie: è il silenzio. Chi è il responsabile, di chi l’alito che ha fatto crollare il fittizio castello di carte? Risponde la polvere, rispondon macerie: è, solo, silenzio.

Qual è il rumore della morte che arriva?

In me latum est scelus (liberos meos etiam contra!):

quomodo et ubi volo tibi captus dicere vere.

In domo mea eram, post pauco in vinculis eram;

cum natis in turri sum, lux non audet inire!

In me latum est scelus: narrabo nunc vere tibi

quomodo insaniam ferat furoremque fames,

dum manducando mortem sanguinem et auras

expecto silens, in turri ut si tumulo ego essem.

Epistola prima – 3 giorni dopo l’imprigionamento (4 luglio 1288).

Quanto durerà questa nostra prigionia, quanto ancora dovremo attendere prima di poter rivedere il sole, la sua luce calda e magnifica, la sua luce viva? Viva la luce del sole, vivi i suoi raggi, ma noi? Siam noi vivi, qui rinchiusi, nel silenzio attutito e mortifero della torre, appesi a questo filo di luce, meno di un raggio, che penetra con sommo sforzo, a fatica attraverso questo spiraglio? Tu forse, sei lontano, non sai, non sai cosa mi è successo… e se ben conosco Ruggieri, non lo saprai mai. Amico mio ti scrivo, è vero, ma dubito che queste mie lettere potranno mai raggiungerti. Ti scrivo più per disperazione, che per reale ed effettiva speranza che queste mie parole lascino mai queste quattro mura muffite, sospese sul vertiginoso baratro di Pisa e da essa divise, isolate dalla loro stessa altezza, da un muro che si chiama prigionia e che non risparmia dolore alcuno a chi vi è legato. In vinculis ti scrivo, e i vincules sono i mattoni alti di una torre, i metri da qui al suolo, la scala angusta e tenebrosa che abbiamo salito ormai tre giorni fa. Angusta e tenebrosa come la nostra vita adesso. Siamo in cinque. Io, naturalmente; e poi i miei due figli, Gaddo e Uguccione, e con loro i miei nipoti Lapo e Anselmuccio. Ti chiederai se Balduccio, sangue del mio sangue, è scampato alla prigionia. Ebbene no. In realtà egli è morto, prima che ci chiudessero qui… e forse è lì che comincia la mia storia. Già, mi continuo a dimenticare che tu non la conosci ancora la mia storia. Ebbene, sai che dopo la pace che io stesso ho trattato per conto di Pisa con Firenze, Lucca e Genova, tutte e tre le città nemiche sono rimaste contente dell’esito degli accordi, anzi, si sono dimostrate in un certo senso riconoscenti a Pisa. Ma i Pisani, i miei carissimi concittadini, un branco di ghibellini, hanno creduto subito che li avessi truffati, che mi fossi lasciato corrompere… e hanno tirato fuori ancora quella storia della battaglia della Meloria, quando non ho fatto in tempo a far ritirare dei vascelli e tutti i marinai a bordo sono morti… ma sì, avrò sbagliato! Ma non ero certo dalla parte dei nemici, non sono un traditore! Invece loro no, hanno cominciato a vociferare che io già allora ero contro Pisa e che non avrebbero mai dovuto lasciarmi diventare podestà e che avevo avvantaggiato gli avversari e che adesso ho lasciato Pisa sguarnita e indifesa. Mi accusano di tutto, anche dei prezzi che continuano a salire, a salire vertiginosamente. Sarà colpa mia? Non potevo fare altro con Genova! Lo si sapeva già che sarebbero saliti i prezzi, ma almeno la città è libera! Loro questo non lo capiscono e l’arcivescovo mette in giro un mucchio di voci su di me. Addossa a me tutte le colpe. Non avrei mai dovuto rifiutare la sua offerta di alleanza. Mi sa che se l’è presa… Ironia a parte (e ti assicuro che non ne sono molto propenso in queste condizioni), devi sapere che ho ucciso un nipote di Ruggieri. Non l’ho fatto apposta, è capitato. Durante una lite! Allora, sai lui, l’arcivescovo, che bello scherzo mi organizza? Che marcisca all’inferno, quel traditore: dopo l’assemblea in San Sebastiano, quando esco, mi fa trovare le strade invase di bande armate, bande ghibelline. Il mio Balduccio era con me, ha combattuto, si è difeso, è morto. Mi ha ucciso un figlio, quel cane. Era quasi mezzogiorno e ci attaccavano da tutte le parti. Allora, fuggendo, correndo, ci siamo trovati in piazza del Comune. Il Comune! L’abbiamo visto e abbiamo pensato: “salvezza!”. Siamo entrati e abbiamo sbarrato le porte. Quelle porte! Robuste, massicce… potrebbero sopravvivere a tutto. Eravamo chiusi dentro, al sicuro, ed eravamo intenzionati a non uscire per alcun motivo, a salvarci la vita. La gente in piazza urlava, qualcuno aveva le torce. Tutti gli ingressi erano presidiati, non c’era via d’uscita. Molti cominciarono a lanciare sassi contro il palazzo. Gli insulti… non li riporto neanche. Verso le quattro la gente cominciava già ad andarsene e la piazza a svuotarsi; ma le guardie presidiavano comunque ogni uscita. Col buio la gente tornò in piazza. Avevano le torce. Quasi tutti. Il grande spazio davanti al palazzo fu invaso da una mare guizzante di fuoco. Le fiamme si riflettevano, arancioni, sinistre, stanche, sui nostri volti, mentre dall’alto contemplavamo quell’immane schieramento di fuoco. Passò forse un’ora. Poi si fecero avanti. Accostavano le torce ai battenti delle porte, scagliavano dardi infuocati nelle finestre, colpendo i tappeti, i tendaggi, la mobilia e i soffitti. Il palazzo cominciò a fumare e a crepitare, come se fosse un ciocco di camino. Il calore aumentava e le travi attizzate cominciavano a cadere sbarrandoci la strada. Noi correvamo accecati da una parte all’altra, consci di essere ad un passo dalla fine, indecisi se questa, la fine, fosse migliore fra le fiamme o fra i ghibellini. Ma quando ormai i corridoi erano invasi dal fuoco, che lambiva le nostre guance con carezze degne della più passionale sgualdrina, puttana Morte, la scelta sembrò sciogliersi da sola col calore: e con uno sforzo, tra le tende ardenti, nel fumo nero e irrespirabile, nel rombo assordante del fuoco, raggiungemmo le porte ormai divorate e uscimmo. Uscimmo nella piazza grande. Sopra di noi c’erano le stelle, il cielo nero e milioni di stelle e un’aria frizzante e fredda, pura, finalmente. Dietro, il palazzo era un’unica palla rossa e gialla, rombante, avvolta nel suo stesso mefitico fumo, denso, che si spargeva a tratti in alto, in alto, forse proprio fino alle stelle. Per un poco tossimmo, guardammo il cielo e respirammo l’aria. Intorno a noi il fragore dell’incendio copriva ogni rumore, la profondità del cielo rassicurava, l’aria fresca rinvigoriva. Poi a poco a poco, cominciammo a percepire anche il resto di ciò che stava accadendo nella piazza. Non eravamo soli. La folla era indietreggiata, spaventata dal calore. Ma ci aspettava. Davanti a tutti, con i paramenti arcivescovili e con i più importanti capi ghibellini, i Gualandi, i Sismondi, i Lanfranchi, gli Orlandi, i Ripafratta, accompagnati dalle rispettive bande armate, stava Ruggieri. Ancora lui. Sempre lui, il mio nemico di una vita. L’incendio alle nostre spalle creava un gioco di ombre sul suo volto e io non riuscivo, in quella danza di luce e fiamme, a decifrarne l’espressione. Vedevo un grande spazio vuoto fra dove eravamo noi e dove stavano, fermi, loro. E in questo vuoto cosparso della luce del rogo, le nostre ombre si allungavano fino ai piedi dell’arcivescovo. La mia testa, l’ombra della mia testa, si trovava proprio pochi centimetri sotto i piedi dell’arcivescovo. Capisci allora, caro amico, che forse la morte tra le fiamme sarebbe stata migliore. Si avvicinarono armati, ci circondarono. Ruggieri mi guardava e non parlava. Sussurrò un ordine a uno e se ne andò. Ci condussero, scortati dalla folla, fino alla torre dei Gualandi, la Muda. Fu aperto il portone e fummo introdotti in una stanza buia e puzzolente di umidità. La porta si chiuse dietro di noi, tagliando fuori il rumoreggiare della folla, le grida, gli insulti. Allora qualcuno accese una torcia. Era Ruggieri. Mi guardai intorno: c’eravamo io, Gaddo, Uguccione, Lapo, Anselmuccio e Ruggieri. Gli altri compagni non erano stati fatti entrare. E nemmeno nessun’altro dei ghibellini era ammesso a quello spettacolo. L’arcivescovo cominciò a salire una scala a chiocciola, senza proferir parola. Dopo un attimo lo seguimmo. Ci ritrovammo in una stanzetta, questa stanzetta!, illuminata dalla torcia di Ruggieri. Egli ci guardò, sorrise; e se ne andò, chiudendo la porta a chiave e lasciandoci sprofondare nel buio. L’alba ci colse ancora svegli. Da allora sono trascorsi tre giorni. C’è uno spiraglio, da cui si intravede solo uno squarcio di cielo. La porta si apre solo per portarci del cibo, una volta al giorno. Ci lasciano pane acqua e qualche zuppetta. Razione doppia, per pranzo e cena. I nostri occhi si sono lentamente abituati al buio e guardare direttamente fuori dallo spiraglio ci duole come una coltellata. Dubito che ci lasceranno qui ancora molto. Ruggieri ha bisogno della mia esperienza per guidare la città. Non mi lascerà mai libero, ma mi farà tornare a casa, mi terrà sotto sorveglianza e mi userà per i suoi scopi, quando avrà bisogno. È questo che dico ai miei ragazzi, figli e nipoti, spaventati e innocenti, che non hanno altra colpa se non quella di essere miei parenti, che non hanno mai preso parte alla politica. Amico mio, il mondo è ingiusto, anzi, crudele. E io, forse, non potrò mai dirtelo.

Epistola seconda – 42 giorni dopo l’imprigionamento (12 agosto 1288).

Caro amico mio, che fare se non scriverti? Certo divertimenti non ce ne sono e Ruggieri non accenna a liberarci. I ragazzi sono mutevoli e un giorno sono in preda allo sconforto, convinti che marciremo qui dentro, mentre il giorno dopo si lasciano divorare dalla speranza più luminosa e piena di gioia, sicuri senz’ombra di dubbio che la libertà sarà un’amica che conosceremo presto. Io non so cosa dir loro, così per lo più sto zitto. Sono preda dei pentimenti e mi rammarico della mia stessa vita, che ora mi pare così inutile e mal spesa. Sono diventato l’uomo più potente di Pisa e me ne sto chiuso qui, probabilmente dimenticato da tutti. Se solo l’apertura da cui passa la luce fosse un poco più larga, non esiterei a spiccare il volo. Ma essa è strettissima, poco più di una feritoia, e qui dentro non ho nulla che possa aiutarmi nel mio intento di somministrarmi la morte. L’unico volto oltre al nostro che mi è concesso vedere, è quello del nostro carceriere, che quotidianamente ci consegna il cibo. È un vecchio che ne ha viste tante e non si stupisce di nulla. Ha l’ordine di non parlare con noi, ma ogni tanto di è lasciato scappare qualche parola. Purtroppo ho constatato che è impossibile corromperlo. Che dire? Aspettiamo fiduciosi (o speriamo di morire presto…)

Epistola terza – 81 giorni dopo l’imprigionamento (20 settembre 1288).

Gioisci, amico mio, perché le mie pene presto finiranno, io, i figli e i nipoti saremo a breve liberi e potrò venirti a trovare! Prepara il vino, che ne vorrò molto, dato che a stento ne ricordo il sapore! Prepara le carni prelibate, prepara tutto, che ho voglia di vivere e di vita, sì, ho voglia di vita! Questa torre puzza di morte, queste mura sono una tomba e un loculo da cui non vedo l’ora di uscire! Ti chiederai a che cosa è dovuta questa gaiezza, questa gioia, questa sicurezza! Ho corrotto, col poco che avevo, la guardia a ragguagliarmi sulla situazione della città e a consegnare un messaggio da parte mia: il vecchio mi ha detto che Ruggieri si è autoproclamato podestà e che si sente tanto sicuro da volersi arrischiare a liberarmi! Inoltre mi ha assicurato che consegnerà a un mio parente, uno Sforza, un messaggio che gli ho dato… è pertanto questione di tempo, la macchina è avviata e gli ingranaggi girano, girano e non si possono fermare. Ormai la cosa è fatta, poco tempo e tornerò a gustare le bellezze della vita. Dimenticheremo la tristezza, aborriremo la notte e il buio, festeggeremo la vita e gioiremo del sole e della luce, mangeremo fino a scoppiare, ci ubriacheremo di vino e d’amore, inebriati dal miele della vita, ebbri di piacere. Darò un banchetto, sì, e tu, amico mio, sarai il primo degli invitati, e poi i nostri amici di un tempo e i nuovi! Andremo a caccia e a puttane, ammazzeremo il primo ghibellino che incontreremo e, se occorrerà, fuggiremo lontano, nell’Impero, forse, dove ci accoglieranno come eroi! Proveremo il Paradiso e l’Inferno e ci accoglierà il più gioioso dei due, quale che sia, non mi importa! Vivremo! Vivrò! Sono vivo!

Epistola quarta – 106 giorni dopo l’imprigionamento (15 ottobre 1288).

Morte. Morte a me, amico mio. Che banchetto, che festa! Che libagioni e che fanciulle! Acqua e pane, pane ed acqua, delusione e grida. È passato più di un mese, un mese in cui il carceriere ha continuato ad assicurarmi, tutti giorni, che la prigionia stava per finire, che la libertà era vicina. Fandonie, frottole, bugie. Ecco di cosa mi sono cibato per un mese. Vecchio mentitore, possa tu passare l’eternità nella morsa dell’inferno, tra le fauci di Satana! Sono qui in un angolo a scrivere e i ragazzi piangono. Non parlo con loro da due giorni, da quando ci siamo accorti che era tutto falso, tutte vane speranze. Ruggieri morirai e marcirai all’inferno, cane schifoso, feccia della feccia, merda sotto i piedi del mondo, carota porporata, cornuto fornicatore bastardo minchione usurpatore! Ti sbatterei per terra e comincerei a darti calci dopo averti fatto male ma molto male mi chinerei e mentre chiedi pietà comincerei a romperti le dita falange per falange poi passerei alle gambe tutte le ossa poi ti taglierei i piedi poi ti spappolerei i tuoi fottuti gioielli poi ti romperei le costole ad una ad una a questo punto staresti già morendo ma non ti lascerei morire così in pace ricomincerei a darti calci ovunque con quanta forza ho fino a sfiancarmi fino ad essere soddisfatto. Non ti stupire, amico mio, della mia ira, non ti stupire. Io voglio uscire da questa prigione, voglio essere vivo, voglio mangiare, bere, dormire come si deve, voglio vedere il sole, voglio… essere libero!

Epistola quinta – 177 giorni dopo l’imprigionamento (25 dicembre 1288).

Buon Natale, amico mio! Buon Natale, dies nati Christi! Fa freddo, la notte, qui dentro, non v’è fuoco né calore. Non ci sarà, oggi, il pranzo di Natale, né la cena. Niente veglie, ieri sera, niente preghiere. Dio non si offenderà. Io, io potrei offendermi! Chiuso qui, in questa torre, come un abietto, come un cane! Dio dovrebbe ben intervenire, dovrebbe alleviare le sofferenze, non sono io certo Gesù Cristo! Buon Natale e che un fulmine cada a distruggere questa torre e a distruggere Ruggieri! Eccoli, i miei propositi per questo Santo giorno. Nessuna stella cometa c’è per me e per i miei, nessuno spiraglio di fede, né di speranza. E allora, gioiamo!, facciamo festa!, rallegriamoci! Brindiamo insieme al Signore Nostro che è nato per noi! Oggi la bontà è padrona, oggi si mangia! Oggi sì che siamo cristiani, oggi, oggi che son qui a morire di freddo, oggi che non posso scaldare i miei figli e i miei nipoti, che non posso assicurare loro un avvenire! Che giorno! Mi credi, amico mio, se ti dico che questo è un Natale indimenticabile? O forse è il più labile di tutti, quello meno fermo alla memoria, proprio perché trascorre esattamente come ogni altro giorno, con l’alba fredda che ci coglie congelati sul pavimento di nuda pietra, con la puzza delle feci e dell’urina, con il sole che si fa spazio in un angolo, con il regale pasto, la zuppa, l’acqua, il pane! Che giorno! Oggi che potremo scambiarci gli auguri, noi cinque, gli auguri di buon Natale! Infrante speranze, vane delusioni, vacuità incommensurabile: ecco i doni che ci scambieremo. Tu di sicuro siedi con la tua famiglia alla luce di un caldo fuoco, che guizza allegro nel focolare, mentre aspetti che un servitore ti annunci che il pranzo natalizio è pronto, è servito. Questa mattina sarai andato alla chiesa del villaggio o della città, ovunque ti trovi, avrai pregato con rinnovata fede, avrai forse speso due parole con questo Dio Ingiusto perché ci liberi, perché ponga un termine alle nostre sofferenze, che questo confine sia la libertà o la morte. Sto impazzendo. E con me anche i ragazzi. Il buio, la desolante ripetitività quotidiana, l’ira, il tedio mortale ci stanno logorando, in silenzio, mortalmente. L’unico diversivo, l’unica attività che ancora mi consola, è lo scriverti; anche se sono consapevole del fatto che tu mai leggerai queste parole che a me costano tanta fatica, l’ultima fatica di cui sono capace. In questo gelo mi dolgono le mani anche solo ad impugnare una penna, ad aprire il calamaio. Il supporto è agli sgoccioli e presto dovrò procurarmi nuovo inchiostro. I miei figli e i nipoti non capiscono perché mi ostini a scrivere; sono convinti che io sia impazzito del tutto. Ancora non si sono rassegnati completamente al pensiero che vivremo la nostra rimanente vita in quest’ombra oscura, ancora sperano di poter rivedere la luce. Come dar loro torto, come disilluderli? Non hanno già sofferto abbastanza? È meglio prepararli al peggio, soffocare in loro ogni speranza sotto cuscini spessi di pessimismo, o è meglio lasciarli liberi di sperare, lasciar loro un appiglio, un raggio salvifico che li visiti nei sonni inquieti e li conforti e li mantenga vivi? Proprio ieri Lapo mi ha chiesto quando, secondo me, ci avrebbero finalmente liberati. Ho scosso la testa e non gli ho risposto. Allora tutti e quattro si sono ritirati in un angolo e hanno cominciato a piangere. In quel momento, solo dall’altra parte della stanza (non credere: lo spazio è poco, ma a volte pare immenso) ho capito di avere il bisogno di scrivere ancora, di scriverti un’altra, un’ultima, forse, lettera. Potessi ora rispondere a Lapo e agli altri, ad Anselmuccio, a Gaddo, a Uguccione, risponderei “Mai!”. “Mai!”, perché è quello che penso. “Mai!” perché non voglio che si facciano eccessive illusioni, perché, ormai, è inutile farsene. “Mai!” perché spero di morire presto. Ma il silenzio è migliore per me di ogni pianto o grido; non sono io persona che si compiaccia a parlare, specialmente in situazioni simili. Per loro, io, non posso fare più nulla. Anzi, mi par di aver fatto abbastanza. E tanto basti. Auguri.

Epistola sesta – 184 giorni dopo l’imprigionamento (1 gennaio 1289).

Un nuovo anno si apre sul baratro di Pisa. Tu non leggi le mie lettere, non mi rispondi. Ho bisogno che tu mi risponda, ho bisogno che tu mi conforti. Sono stanco. Stanco di vivere o, forse, stanco di non vivere in questa torre maledetta. Voglio un passatempo, uno qualunque. Voglio un diversivo, o diventerò pazzo. Voglio che tu, senza aver mai ricevuto una riga da me, mi risponda, che tu rompa questo silenzio spettrale che incombe cupo in questi metri quadri, in questa stanza priva della luce necessaria a garantire la vita, a garantire un minimo di umanità. Ieri ho provato a parlare, dopo alcuni giorni di silenzio. La mia voce arrochita ha spaventato i ragazzi. Gracchiavo nel silenzio della torre; gracchiavo piano maledizioni. Mi sono accorto che non riesco più a figurarmi il volto di Ruggieri. È labile, è un incubo che mi visita di notte, tutte le notti, il suo volto nella luce dell’incendio, sfigurato dalle ombre e dalle fiamme. La sua espressione indecifrabile. Sono tratti indefiniti, non precisi, non riconoscibili, ma spaventosi. Non riesco a immaginare esattamente, con precisione, la sua faccia, ma la sogno tutte le notti. Piove da parecchi giorni e l’umidità è insopportabile: stiamo tutti male e starnutiamo in continuazione. Se uno di noi prende la febbre, siamo tutti morti. Ad ogni starnuto ci guardiamo con sospetto, come se l’altro fosse colpevole dell’infezione imminente, come se apposta si facesse untore del morbo, intenzionato a cospargerne i semi a danno nostro. L’umidità aumenta il freddo, o almeno la sua percezione, e la zuppa che ci viene portata, anche se tiepida, è il ristoro delle nostre membra congelate, la vera panacea salvifica. Se solo tu mi rispondessi, se solo mi spiegassi perché all’alba i passerotti cantano felici fra le travi di questa torre di morte e sofferenza, se solo mi portassi il conforto di una parola amica o di un veleno potente! Ho imparato a riconoscere e ad apprezzare lo scalpiccio dei passi del nostro carceriere sulle scale, quando ci porta il cibo: è un rumore grasso, con una grande eco, inquietante. Ogni passo riverbera nella tromba delle scale e bussa alla nostra porta; ogni passo ci avvicina il cibo. Ad ogni passo, mi piace pensare, si avvicina la morte. Che suono ha la morte che arriva? È essa silenziosa? O forse è preannunciata da un grande boato, un’esplosione che fa pulsare il sangue nelle orecchie? Ha i passi felpati, la morte, o ha suole di duro legno, che ticchettano distintamente, quasi a scandire i tuoi ultimi secondi?

Epistola settima – 229 giorni dopo l’imprigionamento (15 febbraio 1289).

Vorrei morire presto, amico mio, e vorrei che morissi anche tu, per ritrovarci a scherzare nell’eternità. Vorrei che morisse anche Ruggieri, che marcisca all’inferno, ah, se lo perseguiterò! Non avrà pace da me! Ormai nessuno di noi quasi parla più. Io sto sempre seduto in un angolo, i ragazzi, dall’altra parte della stanza, si guardano fissi negli occhi e ogni tanto scoppiano a piangere. Morte, sorella!, prendimi presto, cullami, presto!, prima che sia troppo tardi!

Epistola ottava – 234 giorni dopo l’imprigionamento (20 febbraio 1289)

Amico mio, credimi se ti dico che la situazione, qui, è insostenibile. Il carceriere non si trattiene più a scambiare due parole, spaventato dall’atmosfera cupa e mortifera di questa stanza. Il silenzio è più grande. I suoi passi rimbombano di più quando sale le scale. Qual è il suono della morte che arriva? Qual è? Presto!, sorella morte, fa sentire i tuoi passi!

Epistola nona – 242 giorni dopo l’incarceramento (28 febbraio 1289)

Caro amico mio, sento la morte vicina: mi vedo continuamente il volto di Ruggieri, senza forma, sfigurato; ma so che è il suo. Hai visto i ragazzi come stanno male? Con che occhi imploranti mi guardano? Ma io che posso fare? Loro vogliono correre ed io voglio morire. Ricordi quando, andando a caccia, mi salvasti la vita? Facesti male: guarda a cosa mi hai condannato! Ma tu non sapevi, e nemmeno ora sai. Tu non sai. Ricordi quando eravamo ragazzi e Pisa era bella, quando non avevamo ancora sentito parlare di Papa e di Imperatore, quando tu vivevi qui e ci divertivamo, quando eravamo vivi? Dove sarai? E dove son io? Ragazzi! Ragazzi! Fatevi coraggio: siamo salvi! Il mio amico ci salverà! Ragazzi, non vi preoccupate! Ragazzi! Animo, su: il peggio è passato: presto verrà lei, verrà e non soffrirete più, non soffriremo più. Lo so che verrà. Verrà. Verrà. Verrà. Verrà ed avrà i passi… i passi felpati? o forse pesanti? Verrà sarà dolce, ragazzi miei! Abbiate fiducia. Verrà. Io l’attendo!

Epistola decima – 252 giorni dopo l’incarceramento (10 marzo 1289)

Eccola! L’ho sentita, ha bussato! Stamane! Dormivamo tutti e ognuno sognava: si agitavano nel sonno, i miei ragazzi. Tutti hanno sognato, poco prima dell’alba e io pure: c’era Ruggieri, ma il suo volto era definito, non torbido! C’era Ruggeri a caccia con altri, famiglie nobili, famiglie ghibelline! Correvano tutti dietro ad un lupo, le cagne sbraitanti, loro sui cavalli, dietro ad un lupo coi suoi figlioletti! Ha bussato, stamane: ora so! Ora so che rumore ha la morte che viene! Ha il rumore dei chiodi piantati nel legno, il rumore echeggiante delle assi che sbarrano una porta! Così tutto è compiuto! Si sono decisi: la chiave, l’hanno buttata; siamo chiusi qui dentro, nessuno ci porterà da mangiare! La morte ha bussato: ci siamo svegliati. Ci siamo guardati. Nei loro occhi c’era la delusione, terrore, impotenza. Io non ho parlato: come al solito nel mio angolino sto seduto, il mento contro alle ginocchia; loro piangono con gli occhi rossi, piangono e mi guardano, lo so che mi guardano, ma io guardo in terra… Che volete da me? Allora? Cosa pensate che possa fare, io, un fallito, un inetto? Che potere pensate che abbia? Cosa volete? Parole di consolazione? State per morire, cretini, aprite gli occhi: non c’è spazio per la consolazione!

11 – secondo giorno

ho fame, abbiamo fame, portaci da mangiare da bere ho sete abbiamo sete, portaci da bere, voglio morire ma SUBITO! non voglio aspettare voglio morire morire morire! non la sentite ragazzi la musica, sembrano bicchieri rotti o angeli in coro, mi ricorda una mattina d’inverno che avevo dieci anni e c’era la maria che cantava in cucina cantava in cucina la maria la sentite maria! Ho fame portami da mangiare porta dell’acqua, maria non te lo dimenticare maria? maria? maria?

12 – terzo giorno

basta piangere ragazzi, conservate le forze perché mi guardate? perché mi fissate? mi accusate lo so che è colpa mia se siete qui ma anche di ruggieri quello stronzo se finisco all’inferno quello ci viene con me! perché mi guardate non posso fare niente perché perché mi guardate perché avete sentito la morte che ha bussato? solo che io pensavo che fosse veloce, che la morte fosse sempre di fretta, invece lei fretta non ne ha, attende, lei, attende… io no! io non voglio più aspettare morte! voglio morire? mi strappo i capelli. mi mangio le mani, ma no! cosa avete capito, non voglio mangiarmi le mani perché ho fame non avete capito niente voglio morire, non voglio mangiarvi perché ho fame, perché sono vostro padre, voglio morire, voglio che quella porta si apra e ci sia dietro la zuppa e il pane e l’acqua giuro che non facevano così schifo, giuro che mi lamentavo per finta, giuro che li mangio, adesso se me li portate, no, padre, no, a letto senza cena no! vi prego ho fame, senza cena no! portatemi un po’ d’acqua che ho fame, un po’ di pane, che ho sete, portatemi la morte, son stanco, son stanco, son stanco

13 – quarto giorno

quasi non ci vedo più sono cieco! sono cieco! concentro quel poco di vista su questa pagina bianca Gaddo Gaddo perché non ti aiuto?, figlio mio, non posso aiutarti e poi ora, ora sei morto, Gaddo, Gaddo, io non ti aiuto, mai ti ho aiutato e tu ti sei accasciato ai miei piedi secco e smagrito, gaddo, come sei magro, e anche tu uguccione, uguccione sveglia! sveglia! rispondi uguccione, pallido, magro, perché non rispondi? io non vi aiuto, gaddo, io non vi aiuto, non parlo, perché cercate il mio sguardo, gaddo, gaddo, uguccione, io, si fa sera anselmuccio, cadi?, anselmuccio, sentisti tu la voce della maria, che canta, che canta, che canta? gaddo anselmuccio sentisti la voce? la morte, sentisti? e lapo, lapo dov’è? lo vedi, tu, lapo, dov’è? è per terra accanto al fratello e ai cugini, è per terra sei, lapo?, sei morto, lapo, sei morto?

14 – quinto

non vedo. son morti. sento i corpi sotto i piedi. son morto? sento che canta, è lei!, è maria!

Sic passus, sic excruciatus, sic vexatus eram;

post dies ex turri sex nostri corpi lati erunt.

Erit in aevo qui nostros casus narrare sciet?

Senza ki-way...

Punge il freddo sulle membra provate,
scivola l’acqua sulla pelle fradicia.

Nel castagneto d’autunno rossiccio
piove. Io scendo e scivolo sulle foglie
bagnate. L’anima è persa tra foglie
cadute. Qualcun parala ma non sento:
sto ascoltando le gocce cadere
e rigarmi la pelle, grondar dai capelli,
fredde e nette gocciolar dalla punta
del naso.

Percezione

Del bosco amaro
colgo nascer di steli,
futuri titani di linfa.

Sonno I

Grave desidero un sonno
che mi goccioli nero
negli occhi.

Lento torpore:
troppo mi si chiede
ma la mente cede.

Appeso alle ciglia
gocciola
buio.

Sonno II

Pesante pasta di sonno
mi avvolge i bulbi degli occhi.

Se i bulbi in terra bagnata
pianti
crescono occhi?

Rispondimi

In
me
nasce
pallido
buio timore
di esser io solo sbagliato.
Dove mi condurrà quest’insana ricerca?
Solo differenze fra me e gli altri: son io, l’unico?

Assassini

Oggi ti ho visto passare. Lontano, per carità. Lontano, come sempre. Io ero sul pullman e tu in strada, uscivi da scuola, ti affrettavi alla fermata. Io parlavo, ma non sapevo quel che stavo dicendo. Guardavo te e parlavo. Sono incredibile. Mi voglio vantare: sono un animale da salotto, so parlare di tutto e con tutti, so tirar fuori discorsi pseudo-interessanti con tutti. Partendo da qualsiasi argomento. La gente ha gli occhi troppo abbuiati per accorgersi che non c’è anima in quei discorsi. Non sentite la differenza? Non notate nulla di diverso tra quando parlo, parlo con l’anima, e quando vi inganno, vi tengo intrecciati al tempo, vi guido, non vi permetto di parlare di ciò di cui non voglio parlare? Non me ne stupisco. È così facile. Siete così abituati a discorsi di vuoto che non vi accorgete quando qualcuno ve li propina apposta. Stavo svenendo, in ospedale, vedevo solo una tenda polverosa e gialla ondeggiare davanti agli occhi, dietro cui si muovevano delle ombre e lontano… dei suoni incomprensibili, le orecchie tappate dal sangue, il dolore al braccio… eppure nel mio pallore sorridevo e parlavo e chiacchieravo e non sentivo la mia voce, percepivo solo un ronzio lontano, ma riuscivo comunque ad abbindolare l’uditorio… Ormai mi viene naturale. Così anche oggi, quando ti ho visto, la mia voce ha continuato come se nulla fosse; in realtà c’è stato il botto. Lo si dice a teatro, aspettando di entrare in scena, quando si saltella inquieti dietro alle quinte buie e polverose, immersi nell’odore di chiuso e di legno, premuti contro la stoffa dei sipari, si aspetta il momento fatidico, luce in scena, lo spettacolo inizia, guardatemi, guardate come son bravo, come recito bene… Mentre si aspetta che il sipario si apra, il cuore fa una cosa strana. Decide che tu, un momento prima stavi bene e un momento dopo, semplicemente, no. Salta un battito. Nel petto si sente un colpo di cannone. Lo chiamiamo “il botto”. Oggi c’è stato il botto. Quando ti ho visto camminare. Ma sono andato avanti a parlare. Non si sono accorti, loro, che in realtà guardavo te. Che di loro, per un istante, il tempo di passare oltre – spietato pullman, potevi fermarti? – non me ne fregava più nulla. Che il mio cuore, la mia mente, la mia anima erano tutti per te. A loro è rimasta solo la mia voce, impassibile, secondo il consumato esercizio che l’ha resa attrice, un nastro registrato che inventa cazzate, completamente scollegato dal resto. Il sorriso appena incrinato, gli occhi lontani. E così non si sono ancora accorti che sto male. Non si sono accorti che ti amo. Da quattro anni. Nemmeno tu lo sai. Nessuno se ne è mai accorto. Non sanno chi sono. Forse, un giorno, se avrò voglia, vi dirò qualcosa di me, di Matteo, ma per ora… no… per ora è meglio che non sappiate niente. Io e lui, io e il Matteo che conoscete, sia il dottor Jekil e mister Hide. Decido io quando mettervi a parte dei segreti che mi consumano da una vita. E non è il momento. Che attore, sono io! Ho imparato tutto: so soffocare le urla. Non mi servono cuscini. Mi bastano le mie stesse labbra chiuse. Le potreste vedere, negli occhi, le mie grida. Potreste. Ma siete una banda di orbi. Ho imparato a trattenere le lacrime. Solo il cuscino conosce i miei pianti. Ho imparato a trattenere la morte: è stato difficile. Il mio balcone in mansarda è così bello: si vedono le cime degli alberi che danzano al ritmo del vento. No, non è il vento. Sono i miei sospiri, che fanno danzare gli alberi e scoprono un cielo di stelle, fredde, mi guardano, vedono un esserino coi piedi nudi, freddi sulle tegole di un tetto d’inverno, con gli occhi al cielo, freddi, lo sguardo ampio sul bosco buio, freddo, nero mare frusciante, lontane lucine. L’aria è gelida e frizzante, come nelle sere più belle. Sarebbe bello annullarsi in questa natura, nell’aria che pizzica le narici e sembra pura come solo lei può esserlo, e il cielo che scorre in silenzio e il bosco che ti aspetta, più in basso. Fondersi e confondersi in tutto questo. Io che fingo tutti i giorni di essere diverso da quel che sono, finalmente ricongiungermi al buio amico, al bosco pauroso che mi piace così tanto, alle stelle epistemiche che non riesco a capire. Finalmente liberarmi della maschera e volare, volare per cinque secondi, il tempo di toccare terra, spiaccicarmi, sentire le ossa che cedono, la testa frantumarsi, il sangue e le botte, le viscere contorcersi, rompersi strapparsi e uscire, uscire insieme con la vita dal mio corpo, e sentire, per ultimo, il silenzio nel petto. Il grande silenzio nel petto. Il sangue fermo nelle vene. Non l’ho fatto. L’ho detto: ho imparato anche a trattenere la morte.. Forse mi è mancato il coraggio, non mi sono voluto arrendere ad essere come sono, mi sono convinto che, prima o poi, le cose andranno meglio. Forse ho voluto sfidare me stesso, impormi di continuare nonostante tutto, farmi ancora più male, riattizzare i dolori. Non so. Fatto sta che mi sono girato e, col bosco, il vento, le stelle alle spalle, ho chiuso la libertà fuori dalla finestra. Così sono ancora io, qui a fingere di non esserlo. Qui a pensare a te, che sei irraggiungibile, come il fumo tra le mani, come le stelle che guardo di notte. È facile, in fondo, dipingersi un sorriso sulle labbra. A volte è anche autentico, non dico di no. Ma è facile fingere. Amor de lon, dicevano nel medioevo. Amor desamaz. Eccolo il mio amore, impossibile, lontano, non ricambiato. Inesprimibile. È la cosa che pesa di più. Io, amante della parola, non posso esprimere il mio amore. Lo devo tenere segreto, rinchiudere il un angolo per non farlo correre via, correre fuori a gridare. Non posso permettermi di gridare o tutti scoprirebbero il mio segreto. E nessuno lo deve scoprire. Il mio segreto è chiuso in me, il nome mio nessun saprà. Nessuno. Nessun dorma a Pekino, stanotte. Nessuno. Nemmeno io. Che non sono a Pekino. Guarderò le stelle e chiederò loro che tu sia felice. Perché io no, non posso esserlo. In una vita, una vita intera, non ho trovato un persona così sincera, così priva di pregiudizi, così fidata, da poter rivelare il mio segreto. Sono così mostruoso? Non si vede che ho voglia di dirlo a qualcuno? Non vedete che sono come un asino, schiantato dal peso della soma, che non riesce più ad avanzare, che se ne frega del bastone e della carota, che se potesse li infilerebbe entrambi e contemporaneamente nel culo di chi dice lui, non vedete che la mia soma, il mio peso mi sta schiacciando? No: io sono forte, non ho problemi, non vi parlo mai di amore. Chissà perché, vi chiedete. Avete ragione. Solo che… non potreste capire. Meglio fare la figura che faccio (non so che figura faccio, ma so che non è bella), piuttosto che rischiare di vedere il disgusto ed il disprezzo dipinti sui vostri volti. Mi disprezzo già da solo, non ho bisogno di trovare conferma in voi. So già che faccio schifo, che non sono naturale, che sono posseduto dal diavolo, come ha detto qualcuno. Lo so già. Ma non mi contaminerete: io lotterò per non sentirmi così, lotterò per dirvi che sono normale e che la normalità non esiste e che è da idioti che io ve lo debba dire e che sono puro come l’acqua fresca dei ruscelli in montagna, che gorgogliano tra sassi splendenti che riflettono scaglie bagnate di cielo lotterò perché voi non mi facciate sentire fango perché io non sono liquame come voi io sono nuvola che scorre e cambia e si scioglie e si riforma e vola e vi vede e vi compiange e ha pietà di voi ma è superiore ed è il vento a portarla e nient’altro e nel vento e nel sole vive e piange e ama e muore. Stronzi. Mi fate sentire una merda. Mi tagliate le ali, a me, che potrei volare. A me, che volo sui sentieri disegnati dalla luna sul mare, nel nero mare, nel cielo nero. Assassini.

Sentiero di luna

Sentiero di luna
sul nero mare
mi indicavi la via…

La via che avrei dovuto seguire
sul nero mare
nel cielo nero
stellato.

Perché non andai?

Mi pento
la vedo,
la luna,
mi guarda,
la luna,
mi chiama,
la luna…

Rispondo?

Risponde?

Non mi risponde:
lo sguardo volge altrove,
occhi belli, ma freddi,
e a me altro non resta
se non te,
fredda amica,
mia luna.

Orotopos

Fresco dell’acque il fruscio
azzurro col cielo più azzurro,
col grigio granito gigante
col verde del bosco che urla
la pace dell’animo stanco.

La grande vallata compone
quiete e silenzio,
rumore e vita in tumulto.

Natura qui regna sovrana
e pare pericolo all’uomo
il troppo restare:
si sente il cigolio
di ciò che non c’entra,
di quello che stona.

Che l’uomo ormai
sia alieno
alla sua naturale natura?

Grigie mattine!

Grigie mattine!
Che vita di ansie
ed affanni,
che correr
continuo
e stancante!
Inutili
preoccupazioni!
Studio
e verifiche
e test
e chiusi pomeriggi
in casa a guardare
la vita passare
in un giorno di sole…