L'armata

L’armata procedeva lenta e costante nella campagna grigia, in un cielo che trascolorava ormai fra il blu e l’acciaio. Le stelle cominciavano a fare capolino dal cupo abisso notturno e la luce del sole morente bastava a illuminare appena un lembo rosso a ovest. Nessuna nuvola. Nessun vento. La campagna era innaturalmente immobile, statica di fronte a quella colonna interminabile di uomini, di cui non si scorgeva né l’inizio né la fine. Gli elmi luccicavano radi e l’intero esercito sembrava un fiume dopo la piena, quando, ancora gonfio di piogge e impetuoso, rallenta il passo e il sole splende rifranto sulla superficie increspata dell’acqua. Un fiume d’acciaio. Il greto la vecchia strada, di polvere e terra, con qualche cespuglio e grossi mazzi di erba secca fra i solchi dei carri. Una casa di pietra, col tetto di paglia, sorgeva in mezzo al mare dei campi, più grande di una mezzadria, più piccola di una normale abitazione. Un sottile filo di fumo si contorceva agonizzante sopra al tetto sbilenco, uscendo da una fessura fra i rametti. La colonna avanzava, inesorabilmente, in un silenzio angosciante e impossibile, senza uno scricchiolio, senza un cigolio d’armatura, uno spezzarsi di rametti, un tonfo di passi. Nulla. A intervalli regolari alti cavalieri interrompevano la lunga schiera di fanti, i cavalli ornati e bardati come in una parata. Ma quale macabra parata! Che triste malinconia di rimpianto in quei gesti meccanici e perfetti!

Niente e nessuno si muoveva nella campagna a parte l’esercito. Nella casa di pietra, l’uomo guardava dalla finestrella scalcinata. Aveva paura. Chi era quella gente? Lentamente la luce spariva, il rosso si incupiva. La notte stava prendendo il sopravvento e la schiera avanzava. Ogni soldato era uguale, ogni armatura identica alle altre. Quanti saranno stati? Un corvo si alzò lentamente, descrivendo un ampio arco nel cielo buio. Nero su nero, notte contro la notte. Si udì uno stridio e il corvo precipitava dal cielo nero in mezzo a un campo. Una brezza leggera si alzò a scompigliare le spighe, ma la colonna procedeva uniforme e compatta. Ormai le stelle brillavano e la luna splendeva sulla campagna desolata. Il sole era sparito, inghiottito dalla terra, come lo era stato il corvo. L’uomo guardava l’armata e guardava la luna, unica interlocutrice, unica testimone di quell’angosciosa marcia. Nell’argentea luce lunare infatti la colonna procedeva, senza fermarsi, senza che se ne potesse vedere la fine. Persino l’inizio era un’incognita. La notte era fredda e limpida. Come in un sogno l’uomo restava alla finestra, appoggiato alla pietra gelata, a contemplare il fiume che trascorreva costante sulla strada. Andavano verso la città. Non sapeva quale, non sapeva perché. Venivano da lontano. Chissà quando avevano cominciato a marciare. Chissà quanto ancora avrebbero viaggiato. E quanti erano? L’uomo non lo sapeva: c’erano sempre stati e lui sempre li aveva guardati. Mai una sosta per quell’esercito, mai un rumore da quell’armata. Un’armata. Non più di un brillio e di un guizzo di luce.

Quella notte, nel cuore della notte, l’armata si arrestò. La brezza era ora ferma. Le spighe non si muovevano. Il freddo pungente, il cielo limpido. La colonna era ferma e i soldati restavano inquadrati nelle righe. Il freddo aumentava. Di colpo all’uomo sembrò che ci fosse meno luce. Perché si fermavano? Cosa stava accadendo? Le stelle più piccole si oscuravano. Poi le più brillanti, Sirio e l’Orsa e Vega e tutte quante si spegnevano, morivano a poco a poco. Il cielo era nero. La luna svaniva in fretta coperta da una coltre cupa. Ormai nulla si vedeva più. Eppure egli sentiva la presenza dell’armata, sulla strada. Gli sembrava di essere nudo e inerme di fronte a loro, gli sembrava di essere stato visto. Aveva paura. La temperatura era ormai scesa sotto ogni limite di sopportazione e l’uomo stava per mettersi a gridare. Ormai aveva lasciato la finestra, incapace di resistere. Non vedeva niente e aveva paura. Una candela. Non poteva accenderla. Il fuoco era spento, la legna non si accendeva, le pietre focaie non facevano scintille. Nella sua anima sentiva un vento impetuoso ululare, sentiva i rametti del tetto trascinati via, sentiva le pietre della casa che scricchiolavano. La porta di legno si spalancava, il gelo penetrava ancora di più, la luce mancava, i soldati erano sempre fermi; il dolore, il dolore aumentava, si faceva spazio dentro di lui. Boccheggiava, l’aria... dov’era l’aria? Vide la luce bianca e fredda, vide il corvo alzarsi nel cielo e cadere, le spighe ormai divelte volavano in un unico vortice sulla campagna. Le spighe! I campi! Tutto moriva! Tutto appassiva! I soldati inquadrati nei ranghi restavano immobili. Lame di luce squarciavano le fessure fra le pietre... la casa! Che oppressione! La casa! Usciva correndo dalla casa, urlava ma la voce moriva in gola, scappava via, lontano da quei soldati funesti, ma veniva attirato verso di loro. Correva, rotolava, cadeva, correva rotolava cadeva incespicava non poteva fermarsi, lontano!, lontano da loro fin dove poteva fin dove riusciva ma dove? dove si poteva fermare? dove trovare pace? Perché non poteva sfuggire... e quel rombo! Quel rombo! Da dove veniva? Perché? Per lui? Le montagne! Le montagne in fondo alla piana... salvezza! Salvezza! Ci poteva arrivare, poteva... il freddo, il freddo. Poi tutto cessò.

Si ritrovò fermo ai piedi di un fante, una fredda armatura, vuoto guscio. Il buio permeava la notte. Niente stelle, niente vento. L’armata era ancora ferma. A fatica si rialzò. Era impedito nei movimenti da qualcosa. Era pesante. Non sentiva più il freddo. La luce tornava poco a poco, le stelle, la luna, la campagna ancora tranquilla e scompigliata dalla brezza, la sua casa come al solito, col filo di fumo che usciva dagli spiragli del tetto, le pietre tutte perfettamente in ordine, la finestra da cui poco prima guardava... ma non riusciva a tornarci. Nella colonna ora c’era, proprio vicino a lui, un quadratino di terra vuoto, un piccolo spazio libero. Il terreno della strada in quel quadratino era calpestato, nero, quasi morto e bruciato. Vi si alzava un piccolo filo di fumo. Tutti erano fermi, nessuno lo guardava. Vuote armature. Non comprendeva cosa ci facesse lì. Ignorava come ci fosse arrivato. L’uomo, però, non tremava. Non aveva paura. Anche la luna, la luna bella, gli passava addosso col suo fluente chiarore senza toccarlo. Sentiva dentro di sé un vuoto, un vuoto insostenibile, un grande silenzio nel petto. Fece un passo. La sua mano batté contro la gamba. Per tutta la campagna risuonò un forte clangore metallico. Si guardò. Alla luce della luna le sue mani scintillavano di lucente acciaio e il suo corpo era temprato e resistente. Il gomito era una giuntura flessibile. Le mani, dei guanti di ferro. Si toccò il capo. Un elmo, un elmo di cavo metallo. Cos’era? Non lo sapeva. Un cavaliere, un’armatura vuota su un cavallo di fumo, gli si avvicinò. Stese un braccio, indicando il quadratino vuoto. La nuova armatura vi si portò e si mise in riga come gli altri. Il cavaliere lo guardò per un attimo. Poi, voltandosi, disse:

-Benvenuto.

E l’armata mosse.

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