De caelo tactas memini praedicere quercus

De caelo tactas memini praedicere quercus

Brutta giornata. Nebbia, grigio diffuso. Autobus pieno di prima mattina, odiosa mancanza d’aria, di spazio. Finestrino appannato. Uno sconosciuto mi cade addosso, non si scusa. Nella cartella pulsa il libro di Storia, dice “Non hai studiato! Non hai studiato! Prenderai quattro perché mi trascuri”. Flebile la voce del versionario di Greco: “Ma smettila, che per studiare Storia non ha fatto Greco… ah ma tanto oggi, te lo dico io, ti interroga”. Il diario: “Basta, sono sicurissimo che per oggi non c’era né Storia né Greco da studiare” (con voce da segretaria, ma sta consultandosi al giorno sbagliato). L’autobus inchioda. Cado rovinosamente e rimbalzo contro un palo e pesto i piedi a una e mi sveglio.

O mattutino grigiore

O nebbia di buio sonno,

singhiozzante armonia

dello stanco dormiveglia.

Barocca e ridondante. Potrei fare di meglio, ma ho sonno. Le parole mi viaggiano davanti, buoi intenti a dissodare un terreno di mezze frasi e poesie mancate.

La nebbia del mattino…

Sembra Carducci… È che ho la mente a Storia, che c’è la verifica… Comunque sono pronto, ho studiato. O almeno, mi sembra di essere pronto. Cioè in teoria, a meno che non chieda impossibilia, dovrei essere pronto. Forse non sono molto sicuro. Stop. Sono pronto, sono pronto, sono pronto, sonopronto, sonopronto sonoprontosonoprontosonoprontosonopron… flash. Nel mezzo del cammin del mio pensiero, toh guarda un raggio di sole! Mi sto distraendo da Storia, devo essere più ansioso, se no non mi concentro abbastanza e do tutto per scontato e sbaglio in pieno e prendo quattro.

O palloso dì scolastico

che il cuor a mille mi fai andare!

Degna delle 7,30 di mattina. Cioè: schifosa. Ma non c’erano intenti particolari, solo una pura e semplice verità. Quanti cuori su un pullman ATM Milano-Magenta-Cuggiono, quante piccole vene nascoste, minuscoli capillari pulsanti, quanti globuli rossi, quanti piccoli movimenti, quanta piccola vita? Quanto amore, odio, quanta preoccupazione (per Storia!), quanta tristezza? Quante risate, sorrisi o solo smorfie di labbra che vogliono liberarsi della loro tensione, dopo tante espressioni imbronciate? Quanti occhi, fittamente intrecciati, aperti, chiusi, opachi o brillanti di un nuovo fuoco, appena sbocciato fra la puzza di benzina e di ascelle (perché c’è già alle 7,30)? I paesi, uno dopo l’altro, si presentano come una lunga fila di case. Nulla di più, per quanto distinguo per lo fioco lume e pel finestrino appannato. Forse un albero grigio in un parco. O forse è un patibolo, con un impiccato, sì!, un impiccato con gli occhi aperti, fuori dal sicuro riparo delle orbite, con la lingua nera e gonfia e la faccia bianca e il collo spezzato. Ma è già passato, è già cambiato paese, ora c’è una rissa per un posto che si è liberato più avanti, ora c’è una signora che impreca contro gli zaini, cade e muore. Poi resuscita e fa sparire tutti gli zaini e tutte le verifiche e porta a tutti cappuccino e caffè e il caffè cade e inonda l’autobus e arriva una nave e mi ri-sveglio.

Navi, barche

scialuppe e vascelli,

che bianco solcate il mare

di onde, portate nel legno

portate nel fondo

delle vostre stive

un poco di vento,

un poco di sale.

Portatelo a me,

portatelo qui,

il mare portate

che possa sentirlo:

che possa coprire ruggendo

questo rumore,

sapore

di marcio.

Ok, mi sono addormentato, lo so. Non capiterà più. Ma è questo pullman, questa mattutina noia, questa pallida reminescenza di un ben più profondo sonno, ahimè, interrotto. Caldo lettuccio, morbide coltri che sfidano con sorrisi di tessuto l’opaco gelo dell’alba, coperte che con i loro mille colori si fan beffe di quel frigido grigiore muto. Che stupefacente scatola di vita, un autobus! Cosa accadrebbe se una gigante mano scendesse (sembra “e provvida venne una man dal cielo…) e scuotesse l’autobus, lo scuotesse forte, shakerasse per bene e a fondo tutti i suoi passeggeri? Quali, grandi, nuove, combinazioni nascerebbero, verdi germogli di mai provati miscugli? Ecco, ecco che il ragazzo qua avanti non avrebbe più al suo fianco la fidanzata, ma una bisbetica quanto lusingata vecchietta, con un gran cesto di arance appena comprate… e laggiù ecco che la migliore amica di Tal dei Tali diventa la sopraccitata ragazza (cui la vecchietta ha ormai rubato il fidanzato, vegliarda rubacuori), la quale racconterà ogni pettegolezzo della sua storia, mentre al posto dell’autista, ecco, il tamarrozzo seduto là in fondo, che comincia a guidare spericolatamente sui marciapiedi, schivando pedoni di passaggio e cestini ridondanti. Ogni discussione rotta rinasce con nuovi interlocutori, ogni distanza annullata e ogni vicinanza separata da muri di folla. E intanto corre, corre il bus, mangia il grigio asfalto, vomita grigio fumo, e, come per un sortilegio, nella sua scatola arancione e blu, si ingrigiscono i passeggeri, assopiti viandanti di un interurbano pellegrinaggio quotidiano. Passeggeri. Coloro che passano. Una nuvola passeggera, una passeggera letizia, una passeggera tristezza, moda passeggera; una persona passeggera. C’è. Ma fra poco? Passa. Passano, lente, le marce della macchina, scala la frizione, passano i paesi e passano i minuti, passano i mesi e gli anni, passano persone ed odori, passano gioie e passano dolori. Passano momenti così piccoli che sembrano destinati a sfuggire al pur fitto setaccio del tempo. Ma passano. Passano colori che si perdono dietro al finestrino appannato, passano forme indistinte che sono marziani o bambini, auto o astronavi. Passano i passi leggeri di qualcuno, perdendosi nel silenzio, affogando nella loro stessa flebile, piccola, sorda eco. Tempus fugit. Et secum vitam nostram, inanem lacrimam vacui, fert. Passano le persone, si lasciano un’orma dietro di sè. Un’orma che come tutte le orme, dura quel poco che basta al mare per cancellarla. Non c’è più nessuno sulla spiaggia ventosa, solo le tracce di piedi scalzi e spensierati, che ricamano la sabbia umida del tramonto. E tra poco nemmeno le impronte resteranno, nemmeno loro. Certo alcuni lasciano impronte più profonde, che l’acqua, il gelo, il vento faranno più fatica a cancellare; sarà un attimo d’immortalità in più, un frammento di infinito. Ma non sono indelebili, non sono infinite, non sono immortali: anche le impronte più marcate, più profonde, se ne andranno. Del piede che le calcò, nessuna traccia. Passano momenti così piccoli che sembrano destinati a sfuggire al pur fitto setaccio del tempo. Ma passano. Passano i passi leggeri di qualcuno, perdendosi nel silenzio, affogando nella loro stessa flebile, piccola, sorda eco. Così passa anche questo autobus colmo di sentimenti e pensieri, strabordante spiagge ventose e deserte, granelli di sabbia in volo, plananti sulla pelle screpolata dal sole, arida. Passa l’autobus e arriva a scuola, alle interrogazioni di Storia e di Greco, al normale giorno che attende la nostra vita. Si scende alla fermata e l’aria è fredda, una gelida secchiata che risveglia le membra, ridesta la mente. A cosa stavo pensando in pullman? Non ricordo… devo andare, sono in ritardo… mi tornerà in mente.

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