Assassini

Oggi ti ho visto passare. Lontano, per carità. Lontano, come sempre. Io ero sul pullman e tu in strada, uscivi da scuola, ti affrettavi alla fermata. Io parlavo, ma non sapevo quel che stavo dicendo. Guardavo te e parlavo. Sono incredibile. Mi voglio vantare: sono un animale da salotto, so parlare di tutto e con tutti, so tirar fuori discorsi pseudo-interessanti con tutti. Partendo da qualsiasi argomento. La gente ha gli occhi troppo abbuiati per accorgersi che non c’è anima in quei discorsi. Non sentite la differenza? Non notate nulla di diverso tra quando parlo, parlo con l’anima, e quando vi inganno, vi tengo intrecciati al tempo, vi guido, non vi permetto di parlare di ciò di cui non voglio parlare? Non me ne stupisco. È così facile. Siete così abituati a discorsi di vuoto che non vi accorgete quando qualcuno ve li propina apposta. Stavo svenendo, in ospedale, vedevo solo una tenda polverosa e gialla ondeggiare davanti agli occhi, dietro cui si muovevano delle ombre e lontano… dei suoni incomprensibili, le orecchie tappate dal sangue, il dolore al braccio… eppure nel mio pallore sorridevo e parlavo e chiacchieravo e non sentivo la mia voce, percepivo solo un ronzio lontano, ma riuscivo comunque ad abbindolare l’uditorio… Ormai mi viene naturale. Così anche oggi, quando ti ho visto, la mia voce ha continuato come se nulla fosse; in realtà c’è stato il botto. Lo si dice a teatro, aspettando di entrare in scena, quando si saltella inquieti dietro alle quinte buie e polverose, immersi nell’odore di chiuso e di legno, premuti contro la stoffa dei sipari, si aspetta il momento fatidico, luce in scena, lo spettacolo inizia, guardatemi, guardate come son bravo, come recito bene… Mentre si aspetta che il sipario si apra, il cuore fa una cosa strana. Decide che tu, un momento prima stavi bene e un momento dopo, semplicemente, no. Salta un battito. Nel petto si sente un colpo di cannone. Lo chiamiamo “il botto”. Oggi c’è stato il botto. Quando ti ho visto camminare. Ma sono andato avanti a parlare. Non si sono accorti, loro, che in realtà guardavo te. Che di loro, per un istante, il tempo di passare oltre – spietato pullman, potevi fermarti? – non me ne fregava più nulla. Che il mio cuore, la mia mente, la mia anima erano tutti per te. A loro è rimasta solo la mia voce, impassibile, secondo il consumato esercizio che l’ha resa attrice, un nastro registrato che inventa cazzate, completamente scollegato dal resto. Il sorriso appena incrinato, gli occhi lontani. E così non si sono ancora accorti che sto male. Non si sono accorti che ti amo. Da quattro anni. Nemmeno tu lo sai. Nessuno se ne è mai accorto. Non sanno chi sono. Forse, un giorno, se avrò voglia, vi dirò qualcosa di me, di Matteo, ma per ora… no… per ora è meglio che non sappiate niente. Io e lui, io e il Matteo che conoscete, sia il dottor Jekil e mister Hide. Decido io quando mettervi a parte dei segreti che mi consumano da una vita. E non è il momento. Che attore, sono io! Ho imparato tutto: so soffocare le urla. Non mi servono cuscini. Mi bastano le mie stesse labbra chiuse. Le potreste vedere, negli occhi, le mie grida. Potreste. Ma siete una banda di orbi. Ho imparato a trattenere le lacrime. Solo il cuscino conosce i miei pianti. Ho imparato a trattenere la morte: è stato difficile. Il mio balcone in mansarda è così bello: si vedono le cime degli alberi che danzano al ritmo del vento. No, non è il vento. Sono i miei sospiri, che fanno danzare gli alberi e scoprono un cielo di stelle, fredde, mi guardano, vedono un esserino coi piedi nudi, freddi sulle tegole di un tetto d’inverno, con gli occhi al cielo, freddi, lo sguardo ampio sul bosco buio, freddo, nero mare frusciante, lontane lucine. L’aria è gelida e frizzante, come nelle sere più belle. Sarebbe bello annullarsi in questa natura, nell’aria che pizzica le narici e sembra pura come solo lei può esserlo, e il cielo che scorre in silenzio e il bosco che ti aspetta, più in basso. Fondersi e confondersi in tutto questo. Io che fingo tutti i giorni di essere diverso da quel che sono, finalmente ricongiungermi al buio amico, al bosco pauroso che mi piace così tanto, alle stelle epistemiche che non riesco a capire. Finalmente liberarmi della maschera e volare, volare per cinque secondi, il tempo di toccare terra, spiaccicarmi, sentire le ossa che cedono, la testa frantumarsi, il sangue e le botte, le viscere contorcersi, rompersi strapparsi e uscire, uscire insieme con la vita dal mio corpo, e sentire, per ultimo, il silenzio nel petto. Il grande silenzio nel petto. Il sangue fermo nelle vene. Non l’ho fatto. L’ho detto: ho imparato anche a trattenere la morte.. Forse mi è mancato il coraggio, non mi sono voluto arrendere ad essere come sono, mi sono convinto che, prima o poi, le cose andranno meglio. Forse ho voluto sfidare me stesso, impormi di continuare nonostante tutto, farmi ancora più male, riattizzare i dolori. Non so. Fatto sta che mi sono girato e, col bosco, il vento, le stelle alle spalle, ho chiuso la libertà fuori dalla finestra. Così sono ancora io, qui a fingere di non esserlo. Qui a pensare a te, che sei irraggiungibile, come il fumo tra le mani, come le stelle che guardo di notte. È facile, in fondo, dipingersi un sorriso sulle labbra. A volte è anche autentico, non dico di no. Ma è facile fingere. Amor de lon, dicevano nel medioevo. Amor desamaz. Eccolo il mio amore, impossibile, lontano, non ricambiato. Inesprimibile. È la cosa che pesa di più. Io, amante della parola, non posso esprimere il mio amore. Lo devo tenere segreto, rinchiudere il un angolo per non farlo correre via, correre fuori a gridare. Non posso permettermi di gridare o tutti scoprirebbero il mio segreto. E nessuno lo deve scoprire. Il mio segreto è chiuso in me, il nome mio nessun saprà. Nessuno. Nessun dorma a Pekino, stanotte. Nessuno. Nemmeno io. Che non sono a Pekino. Guarderò le stelle e chiederò loro che tu sia felice. Perché io no, non posso esserlo. In una vita, una vita intera, non ho trovato un persona così sincera, così priva di pregiudizi, così fidata, da poter rivelare il mio segreto. Sono così mostruoso? Non si vede che ho voglia di dirlo a qualcuno? Non vedete che sono come un asino, schiantato dal peso della soma, che non riesce più ad avanzare, che se ne frega del bastone e della carota, che se potesse li infilerebbe entrambi e contemporaneamente nel culo di chi dice lui, non vedete che la mia soma, il mio peso mi sta schiacciando? No: io sono forte, non ho problemi, non vi parlo mai di amore. Chissà perché, vi chiedete. Avete ragione. Solo che… non potreste capire. Meglio fare la figura che faccio (non so che figura faccio, ma so che non è bella), piuttosto che rischiare di vedere il disgusto ed il disprezzo dipinti sui vostri volti. Mi disprezzo già da solo, non ho bisogno di trovare conferma in voi. So già che faccio schifo, che non sono naturale, che sono posseduto dal diavolo, come ha detto qualcuno. Lo so già. Ma non mi contaminerete: io lotterò per non sentirmi così, lotterò per dirvi che sono normale e che la normalità non esiste e che è da idioti che io ve lo debba dire e che sono puro come l’acqua fresca dei ruscelli in montagna, che gorgogliano tra sassi splendenti che riflettono scaglie bagnate di cielo lotterò perché voi non mi facciate sentire fango perché io non sono liquame come voi io sono nuvola che scorre e cambia e si scioglie e si riforma e vola e vi vede e vi compiange e ha pietà di voi ma è superiore ed è il vento a portarla e nient’altro e nel vento e nel sole vive e piange e ama e muore. Stronzi. Mi fate sentire una merda. Mi tagliate le ali, a me, che potrei volare. A me, che volo sui sentieri disegnati dalla luna sul mare, nel nero mare, nel cielo nero. Assassini.

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